IL PIÙ GIOVANE VESCOVO DI POLONIA
Prima di tornare,
però, si presentò alla sede varsaviese del Primate di Polonia. Vi
si recò direttamente dall'autobus, vestito in borghese (naturalmente
durante l'udienza con il Primate ebbe cura d'indossare una tonaca che gli era
stata imprestata). Sembrava un turista affaticato più che il nuovo
vescovo titolare di Ombia.
Dopo l'udienza, tornato presso le suore Orsoline
che lo ospitavano, sulla via Wislana, s'immerse in una interminabile preghiera
di molte ore.
Possiamo facilmente indovinare che cosa accadeva allora nel
suo animo; ma nella quiete silenziosa di quella cappella, così lontana
dal brusio della città e dalla calura estiva, dobbiamo lasciarlo in pace.
Le parole qui sarebbero inopportune, tanto più che ormai sappiamo quanto
la preghiera fosse, per quest'uomo con il volto sempre abbronzato dal sole e
vestito in borghese, un grande, naturale atto umano.
Una delle studentesse,
la suora orsolina Józefa Zofia Zdybicka, oggi professoressa di filosofia,
ricorda le parole pronunciate in quell'occasione dal sac. prof. Franciszek
Tokarz, poliglotta, storico della. filosofia indù e uomo dal carattere
vivace e mansueto: «Finalmente la Curia mi ha dato retta. Andavo là
e dicevo: fate vescovo Wojtyla. Pio lo è, saggio lo è, ed è
anche buono. C'è una differenza fra me e lui: io, appena apro gli occhi
(viaggiavano insieme da Cracovia a Lublino), esco per fumare una sigaretta; lui
invece s'inginocchia davanti alla finestra e prega, prega senza
fine...»
Il vescovo titolare di Ombia venne adibito come aiuto -
deputavit auxiliarem - alla diocesi di Cracovia, e precisamente all'arcivescovo
Baziak. La nomina venne firmata l'8 luglio 1958 dal Santo Padre Pio XII;
probabilmente fu questa una delle sue ultime ordinanze, perché pochi mesi
dopo, all'alba del 9 settembre 1958, il Papa moriva a Castelgandolfo. Neanche
tre settimane dopo la morte di Pio XII, la domenica 28 settembre, nella
cattedrale di Wawel, veniva consacrato il più giovane vescovo di Polonia,
Karol Wojtyla.
Wawel era assediata di fedeli perché, fra l'altro, in
quel giorno si celebrava la festa del patrono della Cattedrale, S. Venceslao, e
appena il giorno prima era stato celebrato il passaggio delle reliquie di S.
Stanislao. Negli atti «Notificationes a Curia Metropolitae
Cracoviensis» v'è un'annotazione: «Questo tempio antico da ben
trentun anni non vedeva un così solenne atto di consacrazione», da
quando cioè fu qui consacrato, nel 1927, il vescovo Stanislao Rospond,
decano della curia metropolitana, morto qualche mese prima della nomina a
sacerdote del ragazzo di Wadowice.
La consacrazione venne officiata
dall'arcivescovo Baziak assieme al vescovo Franciszek Jop, di Opole e al vescovo
Boleslao Kominek di Wroclaw, il futuro arcivescovo e cardinale, e molto tempo
prima, vicario di Kleparz, come il Nominato.
Il nuovo pastore, rivestito
della pienezza del sacerdozio, mentre sentiva su di sé le mani del
consacratore e sollevava con le braccia il Vangelo, secondo la secolare
tradizione del Pontificato romano, e mentre recitava la preghiera di
consacrazione e consumava, durante il Grande Sacrificio, insieme con il
consacratore l'unica Ostia bevendo dallo stesso calice, ripensò
probabilmente alle parole che Cristo disse una volta ai figli di Zebedeo:
«Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro
servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro
schiavo; appunto come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere
servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,
-28). L'ufficio del vescovo conferisce: potere, autorità,
dignità; ma innanzi tutto, come ha sottolineato il Concilio Vaticano II,
si deve esprimere nel ministero più umile, nella disponibilità al
sacrificio, anche il più grande. Oltre all'Unzione, il giovane vescovo
ricevette il Nuovo Testamento ed il Pastorale, simboli dei tre offici: il
sacerdotale, il profetico ed il reale. Poi gli venne messo l'anello al dito,
come segno del «coniugio» con la sposa, la Chiesa Romana; infine gli
venne imposta sul capo la mitria e gli fu consegnata la Croce.
La mitria
gli fu offerta dall'arciabbazia di Tyniec, mentre il pastorale e la croce glieli
donarono, in segno di ricordo, i cittadini di Wadowice, con gran commozione di
Wojtyla.
Non lo avevano dimenticato neppure i suoi amici attori del Teatro
Rapsodico, che gli avevano regalato un abito vescovile con il quale, recandosi
alla chiesa di S. Floriano, Wojtyla passò in visita dalla zia Stefania
Wiadrowska: che, malata, non potendo partecipare alla consacrazione del nipote,
lo aveva pregato di andarla a trovare.
Il vescovo Karol Wojtyla
TOTUS TUUS
Il nuovo vescovo si scelse come massima il detto
di S. Luigi Maria Grignion de Montfort: «Totus tuus» («totalmente
tuo»). Wojtyla, come quel santo asceta bretone, fondatore di una
congregazione missionaria, autore del noto trattato «Il perfetto amore
verso Maria Vergine», desiderava servire senza limiti la Madre di Dio,
fiducioso nel suo aiuto e nella sua intercessione.
Dopo la consacrazione
mons. Wojtyla divenne membro del Capitolo metropolitano e Vicario generale
dell'arcidiocesi; due anni dopo fu nominato scolastico del
Capitolo.
Nonostante tali importanti e numerosi impegni, egli continuava a
condurre la vita modesta di sempre; persino la casa che ora gli apparteneva si
trovava nei pressi di quella che prima aveva abitato, in via Kanonicza 21.
Un'antica casa con il portale ornato da una iscrizione scolpita nella
pietra:
«Procul este profani»
(Profani state alla
larga)
Abitava con lui la zia Stefania, che qui finirà gli ultimi
giorni della sua vita.
Il vescovo era assediato da mille nuove incombenze,
ma, pur costretto a ridurre il tempo destinato alle lezioni ed al lavoro
scientifico, non interruppe mai i suoi faticosi spostamenti, compiuti spesso di
notte, da Cracovia all'Università di Lublino, e le sue ricerche nel campo
dell'etica.
AMORE E RESPONSABILITÀ
Nel 1960, un anno dopo la pubblicazione del saggio
di abilitazione «Valutazioni sulla possibilità di costruire l'etica
cristiana sulle basi del sistema di Max Scheler», gli veniva pubblicato il
libro tanto discusso in statu nascenti a Santa Lipka: «Amore e
responsabilità», studio etico. In Polonia fu pubblicato nel 1960 e
nel 1962. In Francia: «Amour et responsabilité», 1965, con la
prefazione del padre Henri de Lubac; in Spagna: «Amor y
responsabilidad», 1969, con la prefazione dello stesso de Lubac; in Italia:
«Amore e responsabilità» 1969 e 1978, con la prefazione del
cardinal Giovanni Colombo.
Si tratta di un'opera singolare per diverse
ragioni. L'amore di cui parla l'autore non risponde alla nozione di caritas, ma
riguarda il sentimento legato alla sfera erotica e sessuale. Lo stesso autore,
consapevole dell'inconsuetudine del tema per un sacerdote, scrive
nell'introduzione alla seconda edizione: «Ai sacerdoti viene spesso vietata
la competenza a trattare temi riguardanti il sesso ed i suoi problemi
perché non li conoscono per esperienza diretta come gli uomini che vivono
l'esperienza matrimoniale. Proprio per questo bisogna sottolineare che una delle
fonti di questo libro è sì, l'esperienza, ma un'esperienza
indiretta, quella che riceviamo attraverso il nostro lavoro pastorale. Esso ci
pone così spesso in contatto con i problemi del sesso da privilegiarci di
un'esperienza speciale. D'accordo: non si tratta di esperienza propria, ma di
altri, eppure essa è molto più vasta di qualsiasi esperienza
esclusivamente personale».
«Amore e responsabilità»,
libro dalla genesi insolita e con una interessante esposizione del problema
sessuale messo a confronto con il Vangelo e con l'insegnamento della Chiesa,
è un'opera pionieristica. Nel suo insieme il libro riesce a dare una
delicata e complessa descrizione del fenomeno «amore» in tutte le sue
sfaccettature biologiche e psicologiche. Ma non manca di spunti chiaramente
polemici; basti pensare alla critica della concezione edonistica ed egoistica
dell'amore, e alla denuncia delle false interpretazioni dell'istinto sessuale:
da un lato quelle puritane, tipiche di certi ambienti religiosi, dall'altro
quelle del freudismo pansessualista che, con le sue concezioni della libido, ha
distorto notevolmente il costume erotico contemporaneo. Scrivendo dell'amore, il
futuro Papa si oppone a tutte quelle tendenze che conducono ad una sua
deformazione, e si propone di trattare il problema in conformità con la
norma del personalismo, norma da lui stesso specificata: «Essa, con un
principio che nella sostanza è un divieto, afferma che la persona
è un bene da non 'usare', un bene che non può essere trattato come
oggetto del proprio uso, cioè a dire come il mezzo per giungere allo
scopo. Parallelamente a ciò procede il suo contenuto positivo: la persona
è un bene, l'amore è il solo giusto e pienamente valido
atteggiamento verso di essa. Questa norma - dice l'autore - nel suo contenuto
negativo constata che la persona è un bene che non s'accorda con
l'utilizzazione, in quanto non può essere trattata come un oggetto di
godimento, quindi come un mezzo. Il suo contenuto positivo si sviluppa
parallelamente: la persona è un bene al punto che solo l'amore può
dettare l'atteggiamento adatto e valido a suo riguardo. È quanto enuncia il
comandamento dell'amore». E poi: «Questo, in quanto comandamento,
definisce e ordina una certa forma di rapporto verso Dio e verso gli uomini, un
certo atteggiamento da adottare nei loro riguardi. Questa forma di rapporto,
questo atteggiamento, sono conformi alla persona, al valore che essa
rappresenta, quindi sono onesti. L'onestà, come base della norma
personalistica, supera l'utilità (che l'utilitarismo ammette come solo
principio); ma non la respinge, la mette in secondo piano: tutto ciò che
è onestamente utile nei rapporti con la persona rientra nel comandamento
dell'amore» (ed. Marietti, 1978).
L'amore, quello tra due persone,
s'intende, significa, in primo luogo, il bisogno di vivere in armonia con i
princìpi morali, perché questo esige la giustizia operata non
soltanto verso il Creatore, ma anche verso la persona amata. Sia l'uno che
l'altro sentimento di giustizia derivano dai comandamenti della religione.
Partendo da questo punto di vista, morale e religioso, pur mostrando nel
contempo una profonda conoscenza della complessa psicologia dell'amore, Wojtyla
riabilita il principio della verginità, ribadisce l'alto valore del
celibato, analizza i diversi atteggiamenti del sentimento dell'amore verso
«lo Sposo Promesso», compreso quello della sublimazione puramente
religiosa. Rappresenta poi l'istituzione della coppia monogamica degli sposi
come una categoria appartenente al genere di vocazione propria di chi aspira
alla perfezione.
L'Autore di «Amore e responsabilità» non
cerca di sottrarsi alle questioni riguardanti il corpo, ma, al contrario,
sorprende per la franchezza e il coraggio con cui affronta problemi difficili,
arrivando anche a contraddire, quando è necessario, le opinioni tipiche
di alcuni ambienti cattolici.
Il suo è uno studio sull'etica: il
problema morale è centrale. Ricco di penetranti diagnosi, ma anche
garbatamente polemico, è profondamente contemporaneo e svolge un ruolo
ausiliare ed immediato nelle odierne controversie riguardo gli snaturamenti del
costume.
LA BOTTEGA DELL'OREFICE
La problematica dell'amore, nella sua duplice
dimensione, spirituale e corporea, appassionava in quel periodo Mons. Wojtyla. A
questo libro si potrebbero affiancare molti suoi appunti e dissertazioni e
soprattutto «La bottega dell'orefice», un poema drammatico dal
sottotitolo che suscita curiosità: «Meditazioni sul sacramento del
matrimonio che di tanto in tanto si trasformano in dramma» (ed. Libreria
editrice Vaticana, 1978).
Questo poema, racchiuso quasi nella forma scenica
del misterium, è una rappresentazione del percorso e delle tappe
dell'amore: il primo incontro, la dichiarazione, il fidanzamento, il matrimonio,
la maternità; ed è anche una specifica descrizione di questi
rapporti, nei quali l'amore dei genitori acquista una continuità
nell'amore dei loro figli. La «Bottega dell'Orefice» è un poema
sorprendente, ricco di scene sublimi e di accorgimenti psicologici di rara
acutezza: vi osserviamo la trasfigurazione di un grande amore che si completa
con il dramma della perdita del coniuge durante la guerra. Assistiamo al
disfacimento di un altro grande incantesimo d'amore che si dissolve in una
assenza per ridursi infine ad un ricordo nebuloso, riflesso su di una vetrina
strana di un negozio d'oreficeria dove erano state acquistate le fedi nuziali.
Il tono è pessimistico? Si potrebbe dir di sì, leggendo questa
definizione dell'amore:
...Ecco uno di quei processi che saldano
l'universo, / uniscono le cose divise, arricchiscono quelle grette / e dilatano
quelle anguste...
Le conclusioni che si possono trarre da questa
formula sono confortanti: se in una generazione l'amore ha trovato ostacoli e
forze distruttive, esso non muore, ma si rinnova nella generazione successiva,
quella dei figli, irrobustito nei sentimenti ed affinato nell'aspirazione al
bene.
Il Santo Padre, occupandosi in quei tempi del problema dell'amore,
sfruttava non solo l'esperienza del confessionale, ma anche le conclusioni
tratte dalle conversazioni con gli amici, con i collaboratori, con gli studenti
ed infine con le persone incontrate occasionalmente. Ne parla con riconoscenza
lo stesso Wojtyla in «Amore e responsabilità» e ne fanno
menzione nei propri scritti gli amici di «zio Karol».
AMICIZIA CON L'UOMO DELL'EUCARISTIA
Tra le persone che hanno dato un contributo alle
riflessioni di mons. Wojtyla fu Jerzy Ciesielski, una personalità
eminente, prima studente e poi docente del politecnico di Cracovia. Aveva un
unico desiderio: quello di vivere in una dimensione sovrannaturale. Il rev.
Wojtyla, di qualche anno più anziano di lui, trascorse molte belle
giornate assieme all'amico, ora sciando, ora vagando. Li affratellavano le
preghiere recitate insieme, le messe celebrate nel fitto dei boschi, sulle rive
erbose dei laghi, coperte ancora di rugiada mattutina. Jerzy Ciesielski, padre e
marito felice, amava parlare della famiglia e discorrere della
religiosità e della filosofia del lavoro.
«Si tratta del lavoro
- scriverà il cardinale nel 1970 - inteso nella sua peculiarità
che consiste in uno specifico atteggiamento verso l'oggetto, dettato dalla
precisione che la tecnica ci offre. Ma nello stesso tempo si tratta anche del
lavoro inteso come una componente essenziale della vita personale e familiare,
della vita nell'ambiente di lavoro (e le persone di quell'ambiente lo ricordano
benissimo). Ed infine, esso è una componente della vocazione cristiana.
Jerzy amava il suo mestiere e sapeva scoprirne gli intrinseci valori, sapeva
anche trovare per esso la giusta misura del dovere e dell'impegno. E se riusciva
a riservare per esso il posto anche nel suo cuore, vuol dire che c'era in questo
qualche mistero della vita interiore e una espressione di devozione a Dio che
coltivava con cura e, di giorno in giorno, sviluppava in se stesso. Si aveva
impressione che la tecnica, lo studio l'attività didattica fossero
manifestazioni di un diverso lavoro, un lavoro interiore che aveva come proprio
oggetto la parte più profonda ed irripetibile del proprio 'io', e che gli
era stato donato come compito».
Questo frammento proviene da una
rievocazione di Jerzy Ciesielski. Questo «uomo di Eucaristia» o
«uomo della parola di Dio» - come viene definito in questo schizzo -
perse la vita insieme con i suoi due bambini in una sciagura sul Nilo,
nell'ottobre 1970. In quel periodo insegnava nell'università di Kartum e
l'imbarcazione su cui viaggiava, per una collisione, affondò. Fu
così che Wojtyla perse un altro grande amico: ed era, al pari di Jan
Tyranowski, un uomo troppo eccezionale per non conservarlo in vita, almeno nelle
parole. Ricordare questa splendida figura di uomo, oltre ad essere un obbligo
dell'amicizia, era anche un dovere pastorale. È scomparso infatti un uomo
completo, dall'esemplare vita cristiana, che rappresentava per noi una categoria
importante nell'ambito delle attività tecnico-scientifiche. Dunque il
cardinal Wojtyla, scrivendo nel 1970 questa commemorazione, intese presentare a
tutti questo amico verso il quale aveva un debito di riconoscenza per l'esempio
di una vita giusta, temperata ed attiva, interrotta così tragicamente in
quell'autunno di tristezza.
UNA CONVERSAZIONE IN VIA KANONICZA
A Wojtyla non mancavano neppure conversazioni
difficili. Un suo ex studente, incantato dalle omelie del giovane vicario, dopo
anni tornò da lui pregandolo di essere ricevuto: lo voleva far partecipe
dei propri dubbi di natura religiosa. Subito ricevette l'invito a recarsi da
lui, a Cracovia. Il loro colloquio nel palazzo arcivescovile durò a
lungo.
«Dopo - scrisse questo studente, di cui non conosciamo il nome
- siamo usciti insieme dalla Curia, passeggiando verso Planty (l'aiuola verde
che circonda la vecchia città). La giornata era splendida; il vescovo
sorridente salutava tutti i passanti, togliendosi il cappello quando incontrava
le persone più anziane. Con grande entusiasmo gli raccontavo le mie
impressioni suscitate dai suoi scritti ed anche da alcuni passi del libro di T.
Merton: «Nessun uomo è un'isola». Andando così
attraverso i Planty, giunti ai piedi di Wawel, abbiamo girato per via Kanonicza,
dove il vescovo abitava. Prima di entrare in casa, si scusò di non
potermi invitare a pranzo perché lui stesso, come disse, mangiava alla
mensa studentesca: il fatto mi sorprese enormemente.
Gli proposi allora di
rivederci nel pomeriggio. Acconsentì. Alle 18 circa ero di nuovo in via
Kanonicza, fui accolto con gentilezza e fui pregato di attendere un poco in
biblioteca perché il vescovo era momentaneamente occupato.
La
biblioteca era una stanza enorme, con al centro un lungo tavolo circondato da
numerose sedie; le pareti erano tappezzate fino al soffitto da scaffali
stracolmi di libri. Camminavo su e giù per la stanza, ma, preoccupato
dallo scricchiolio del pavimento, mi sedetti su una sedia accanto alla porta.
Dopo un po' il vescovo mi invitò nel suo studio: mi saltò subito
agli occhi un inginocchiatoio appoggiato ad una parete su cui spiccava una
grande immagine di Cristo crocifisso.
Mi sedetti, con l'impermeabile sulle
ginocchia, vicino alla scrivania, su di uno sgabello rivestito di cuoio, e
così riprendemmo il nostro discorso interrotto.
La conversazione
verteva su Cristo e sul suo insegnamento. Col passare dei minuti ritrovavo pian
piano me stesso.
Tutto quel che pareva da tempo essersi spezzato nel mio
animo lentamente si ricomponeva e sembrava metter nuove radici. Ma, nei profondi
meandri del mio animo mi tormentava l'inquietudine, l'incertezza. Volevo
sentirmi dare da quest'uomo, in cui avevo riposto ogni mia speranza, la conferma
delle verità sostanziali alle quali, in qualche modo, credevo. Ciò
appunto mi spingeva a porre domande assurde e senz'altro dolorose per
lui.
Gli chiesi se potevo permettermi di rivolgergli una strana domanda;
poiché mi rispose di sì, dissi allora:
«Crede lei in
Cristo?» Lo vidi profondamente turbato, forse ferito. Dopo un attimo di
silenzio mi rispose che la domanda era veramente singolare ed aggiunse:
«Credo». «E crede - incalzai - che Dio si sia rivelato a S.
Paolo?». «Credo». E ancora: «E che Pietro andò
incontro a Cristo camminando sulle acque?» Rispose: «Credo».
Allora domandai: «Perché crede in tutto ciò?», e quando
emozionato lui si mise a spiegarmi il perché, io lo interruppi dicendo:
«Dunque, il sapere sostiene la fede?» Egli, con profonda convinzione,
mi rispose: «Sì, la sostiene». «Ma lei, eccellenza -
domandai infine - sarebbe pronto a dare la vita per Cristo?» Mi rispose:
«Prego sempre di avere il coraggio per farlo, quando arriverà il
momento».
IL CONCILIO VATICANO II
Gli anni 1962-1965 sono gli anni del Concilio
Vaticano II.
Noi non pretendiamo esporre qui la benché minima parte
dei problemi e dei fatti legati a questo rilevante momento della vita della
Chiesa. Vogliamo semplicemente darne un breve resoconto.
Il Concilio
Vaticano II è strettamente legato alla figura di Giovanni Paolo II, uno
dei padri conciliari più attivi. Del resto, all'inizio del suo papato, si
è richiamato per due volte a questa eredità: nel primo Urbi et
Orbi, pronunciato il 17 ottobre 1978, e nell'enciclica Redemptor hominis, del 4
marzo 1979.
«Anzitutto - diceva nel messaggio Urbi et Orbi, il
ottobre 1978 - desideriamo insistere sulla permanente importanza del Concilio
Ecumenico Vaticano II, e ciò è per noi un formale impegno di dare
ad esso la dovuta esecuzione. Non è forse il Concilio una pietra miliare
nella storia bimillenaria della Chiesa ed anche culturale del
mondo?».
L'iniziatore effettivo e l'organizzatore del Vaticano
II fu Giovanni XXIII, anche se l'idea di convocare un tale consiglio di
ecclesiastici era stata già concepita dai suoi predecessori. Tanto
è vero che Pio XII aveva già nominato una commissione per
preparare le tesi da svolgere nel concilio.
«Il Parroco del
mondo», come stupendamente chiamavano l'indimenticabile Giovanni XXIII,
annunciò la convocazione del Concilio subito dopo la propria elezione.
Era un grande desiderio che aveva già espresso, nell'ottobre del 1958, in
un colloquio privato, e che nel gennaio dell'anno successivo mise in atto
annunciando la decisione ai cardinali.
Nel luglio dello stesso anno l'idea
di questa grande adunanza venne esposta nella sua enciclica Ad Petri Cathedram,
e due anni dopo, col motu proprio Superno Dei, veniva creata una nuova
commissione in cui entrava a far parte, come rappresentante della Polonia, il
cardinale Primate Stefan Wyszynski.
Il mondo veniva così a sapere
che lo scopo del Concilio doveva essere quello del «ritorno alle
fonti» e del rinnovamento della Chiesa nello spirito del Vangelo; ed infine
dell'aggiornamento, cioè l'adattamento della Chiesa alla complessa
realtà del nostro tempo.
L'11 ottobre 1962 ebbe luogo
l'inaugurazione del Concilio, preceduta dall'ingresso nella Basilica di S.
Pietro di quasi duemila Padri Conciliari, dalla S. Messa, dalla confessione di
fede e dal discorso del Santo Padre.
Il futuro Papa Giovanni Paolo II
partecipava a queste cerimonie insieme con altri sedici vescovi polacchi. Tre
giorni dopo fu presente all'udienza concessa dal Santo Padre al Primate ed ai
vescovi di Polonia. Fu proprio in questa occasione che il Santo Padre
pronunciò le storiche parole sulle «terre riconquistate dalla
Polonia», parole coraggiose e sorprendenti che elettrizzarono il mondo e
riempirono di gioia i cuori dei Polacchi.
Il vescovo Wojtyla arrivò
al Concilio Vaticano II come capo della diocesi di Cracovia perché prima
che cominciassero le riunioni a Roma, la diocesi cracoviense aveva vissuto dei
momenti di dolore: il 15 giugno 1962 moriva, inaspettatamente, l'arcivescovo
Baziak e il governo della diocesi passava nelle mani del suo
successore.
Mons. Wojtyla con profondo rimpianto salutò colui che
era stato il suo consacratore, e con l'amore filiale che unisce il discepolo al
maestro, lo ricorderà molte volte ancora nelle sue omelie.
Durante
il funerale il vescovo Wojtyla disse: «Oh, come acutamente capiva le
difficoltà nelle quali s'imbatte l'uomo moderno! Quante volte discutendo
con lui nel suo studio toccavamo i temi più dolenti del giorno d'oggi: la
famiglia, il matrimonio, l'educazione; proprio allora si svelava il volto di un
pastore che cerca una pecora abbandonata, smarrita, destinata forse alla
perdizione».
Il giorno dopo il funerale il Collegio dei Canonici
eleggeva il nuovo vicario del Capitolo cracoviense: il giovane quarantaduenne
vescovo Wojtyla diventava così il capo della diocesi, anche se non ancora
il suo vescovo ordinario. Era ormai conosciuto non soltanto come pio servitore
di Cristo e come un intelletto non comune, ma anche come un instancabile ed
energico organizzatore della vita ecclesiale nell'arcidiocesi.
LA CHIESA, GRANDE COMUNITÀ
A Roma, mons. Wojtyla, insieme con altri vescovi
polacchi, prese alloggio nel bellissimo Collegio Polacco, in piazza Remuria
sull'Aventino Vecchio.
Questo Collegio, di cui allora era Rettore mons.
Ladislao Rubin, oggi cardinale, ancora molte volte ospiterà mons.
Wojtyla. In queste occasioni verranno rispolverate le vecchie conoscenze romane,
specie quelle dei tempi dell'Angelicum. Tra loro spiccava la figura anziana del
professore Garrigou-Lagrange, che dal papa Giovanni XXIII era stato nominato uno
dei trenta consiglieri del Concilio.
Ma l'emozione più grande fu
l'incontro di tutti i vescovi nella Basilica di S. Pietro, e poi i primi
contatti con il «Parroco del mondo», i dibattiti nelle congregazioni
conciliari, spesso molto vivaci, come durante la discussione sulle «fonti
della Rivelazione».
La Chiesa svelava il suo potere sovrannaturale e
la sua «sovratemporalità» e, nello stesso tempo, mostrava la
volontà di mantenere i legami con la realtà del XX secolo, pur
rimanendo fedele alla sua secolare tradizione. Diventava anche chiaro, come mai
lo era stato, che non una razza e non una cultura fanno parte della Chiesa, ma
che essa forma una potente comunità universale, attraverso la quale
scorre lo stesso fiume della fede.
In quell'autunno del 1962 il poeta
Wojtyla scrive questi versi:
Sei tu, Mio Diletto Fratello, sento in
te
un immenso continente,
dove i fiumi di colpo s'arrestano... e
dove
il sole cuoce
tutto l'essere, come un crogiuolo la ganga
del ferro -
in te sento il mio stesso pensiero:
ha vie diverse,
il pensiero, ma con la stessa
bilancia divide la verità
dall'errore.
Ecco allora la gioia di misurare con la stessa
bilancia
i pensieri
che brillano in modo diverso nei tuoi occhi e nei miei
pur
avendo un'identica essenza.
La poesia appartiene al ciclo dedicato
alla Basilica di S. Pietro, intitolata «Chiesa», dall'eloquente
sottotitolo «I pastori e le fonti», composto nei giorni 11 X - 8 XII
del 1962.
Ecco le riflessioni sulla vecchia Basilica, sul pavimento che da
semplice elemento architettonico assume l'importanza di un simbolo religioso: un
pavimento-roccia, simbolo dell'unità cristiana, del suo perdurare nei
secoli e della sua missione nel mondo:
Qui i nostri piedi toccano la
terra su cui
sono sorte
tante pareti e colonne... se tra queste non
ti perdi, ma vai trovando unità e significato -
è
perché il Pavimento ti guida. Esso unifica
non solo gli
spazi
di una struttura rinascimentale, ma gli
spazi dentro di
noi
che camminiamo così consapevoli delle nostre
debolezze e
sconfitte.
Sei tu, Pietro. Vuoi essere qui il Pavimento
su cui
camminano gli altri
(che avanzano ignorando la mèta) per
giungere
là dove guidi i loro passi
unificando gli spazi con lo
sguardo che agevola
il pensiero.
Vuoi essere Colui che sostiene i
passi - come
la roccia sostiene lo zoccolare di un gregge:
Roccia
anche il pavimento d'un gigantesco tempio.
E il pascolo è la
croce.
LA VERITÀ REGGE L'UOMO
In un'altra poesia dello stesso ciclo il poeta
dice:
La verità non versa olio sulle piaghe
per
attenuarne il bruciore,
non si mette sull'asino che poi venga spinto per
via:
la verità deve dolere e nascondersi.
(...)
La
verità regge l'uomo.
(...)
Quell'autunno del Concilio
Vaticano II veniva turbato dalle inquietudini politiche scoppiate nella regione
del Mar dei Caraibi. Il conflitto cubano poteva portare allo scontro tra le
potenze militari del mondo. Giovanni XXIII in quell'occasione indirizzava ai
popoli il suo ardente appello per la pace nell'enciclica Pacem in Terris. I
momenti di tensione, quando ormai sembrava che la pioggia radioattiva stesse per
piombare sul mondo, scomparvero: gli sforzi della Chiesa, uniti a degli uomini
di buona volontà, avevano dato buoni frutti. Ancora una volta divenne
chiaro che la Chiesa, non separandosi dalla realtà con la Porta di
Bronzo, può fare molto anche se l'unica arma di cui si serve è la
verità che sostiene l'uomo, una verità che «non versa olio
sulle piaghe per attenuarne il bruciore» e «non si mette sull'asino
che poi venga spinto per le strade».
L'autorità di Giovanni
XXIII crebbe enormemente. Si avvicinava però alla fine del suo cammino
terrestre e del suo straordinario pontificato.
L'8 dicembre 1962 Giovanni
XXIII chiudeva solennemente la prima sessione del concilio Vaticano II. Si
vedeva che il Papa era malato, e si sapeva che la sua malattia era incurabile.
Ma solo dopo alcuni mesi arrivarono i difficili giorni dell'agonia, lunga e
spaventosa.
Il 3 giugno del 1963 il buon Papa spirava.
I SUOI PREDECESSORI
A Cracovia il vescovo Wojtyla, unendosi nel
cordoglio a tutti gli uomini del mondo, pregava per l'anima del Grande Parroco.
Forse gli ritornavano in mente i momenti che li avevano uniti; come quando era
stato invitato dal Santo Padre Giovanni XXIII a recitare insieme a Lui l'Angelus
dalla finestra di S. Pietro.
Giovanni XXIII ricordava spesso il suo lontano
soggiorno in Polonia e la Messa allora celebrata nella Cattedrale di Wawel, e la
visita a Czestochowa, quando rimase a lungo inginocchiato davanti al quadro
della «Madonna Nera di Jasna Góra».
Ora, morto Lui,
bisognava continuare il Suo operato.
Giovanni XXIII diede l'ultima udienza
privata il 20 aprile 1963 a un cardinale polacco, il Primate Stefan Wyszynski.
Salutandolo sulla soglia della sua biblioteca il Santo Padre disse: «Qui,
in Vaticano si stanno molto preoccupando per il papa malato e per le sorti del
Concilio. Io rispondo: che cosa succederà? Il papa morirà,
verranno i cardinali, sceglieranno un papa nuovo e, in un mese, ritornerà
la quiete».
Queste parole di Giovanni XXIII, riportate dal cardinale
Wyszynski commuovono per la loro semplicità, per la naturalezza con la
quale sono state pronunciate da un cristiano sulla soglia della dipartita per la
rotta della felicità eterna, ma contengono anche il dramma umano, il
dramma di chi le ha pronunciate. E la speranza contenuta in esse non è
stata annientata.
Il nuovo papa, Paolo VI, ha continuato i lavori del
Concilio con la dignità estrema e con la ponderatezza che lo
distinguevano sempre, e, senza distorcerne gli indirizzi e gli scopi
sostanziali, ha condotto in porto il Vaticano II.
Il Concilio Vaticano II
aveva un chiaro carattere ecclesiologico e pastorale. Il suo traguardo
principale fu l'arricchimento della fede sì, inteso però, e lo
vogliamo sottolineare per evitare ogni malinteso, non come una nuova
interpretazione oppure un complemento della fede stessa con qualche nuovo
elemento di dottrina. Il magistero della Chiesa, cioè l'insieme delle
verità delle quali essa è depositaria e portavoce, non ha
subìto nessun cambiamento; è stato soltanto sottoposto all'analisi
molto approfondita, dove si prendevano in considerazione i «signa
temporis».
A proposito della fede, il Concilio ha voluto definire in
che cosa consista il suo arricchimento: esso è sviluppo interiore
personale e comunitario in stretto rapporto con la coscienza, mediante la quale
si esprime l'opera di Dio direttamente nell'animo umano, ed in rapporto agli
altri uomini, per il trionfo dei valori cristiani nel mondo contemporaneo, in
una società che sia rispettosa e garante del diritto di manifestare
pubblicamente la propria credenza religiosa.
Il Concilio ha inoltre voluto
precisare con più chiarezza il concetto di «Chiesa». Essa
è «comunità del Popolo di Dio», una comunità
destinata a partecipare collettivamente all'opera di Cristo, il che conferisce
grande importanza e nobiltà al ruolo che i cristiani laici debbono
svolgere nel loro apostolato secolare. Perché nella Chiesa, oltre al
sacerdozio ieratico, sacramentale, esiste un sacerdozio universale che raccoglie
tutti i fedeli e li obbliga a donarsi a Dio.
Nel «Decreto
sull'apostolato dei laici» il Concilio ha anche precisato che il bene
comune, come la legge morale impone, non può disconoscere il diritto
della persona ad associarsi liberamente, a manifestare le proprie opinioni ed a
professare, sia privatamente che pubblicamente, la propria fede. Quindi, proprio
i cattolici, che professano l'amore, hanno il dovere di precisare il loro
rapporto con i «non credenti», e di rendersi disponibili al dialogo
anche con coloro che manifestano convinzioni diverse.
Nell'amore di
patria e nel fedele adempimento dei doveri civili - leggiamo nel Decreto
sull'apostolato dei laici - i cattolici si sentano obbligati a promuovere il
vero bene comune, e facciano valere il peso della propria opinione in maniera
tale che il potere civile venga esercitato secondo giustizia e le leggi
corrispondano ai precetti morali e al bene comune. I cattolici esperti in
questioni pubbliche e, come è naturale, saldamente ancorati alla fede e
alla dottrina cristiana, non ricusino le cariche pubbliche, potendo per mezzo di
esse, degnamente esercitate, provvedere al bene comune e al tempo stesso aprire
la via al vangelo.
I POLACCHI AL CONCILIO
In tutte le attività conciliari, il ruolo
svolto dai vescovi polacchi fu molto importante; fu tra l'altro per loro
iniziativa che Paolo VI annunziò il 21-XI-69 che Maria è la Madre
della Chiesa, dedicandole tutto il genere umano. Il giovane vicario capitolare
di Cracovia, pur non essendo all'inizio inserito in nessuna delle commissioni
conciliari, apparteneva, come già abbiamo detto, al gruppo dei Padri
particolarmente attivi e ascoltati con attenzione crescente.
Durante la
terza sessione, Wojtyla attirò l'attenzione generale quando, primo fra
tutti i Padri, criticò lo schema XIII, proponendone una nuova
formulazione elaborata dai teologi di Cracovia sotto la sua guida. Il
controverso schema XIII era stato approntato da due commissioni conciliari,
quella teologica e quella per l'apostolato dei laici. Wojtyla lo giudicò
troppo paternalistico, specie in ciò che riguardava la struttura
ecclesiastica, e affermò che occorreva considerare il ruolo del laicato
da un altro punto di vista, allargando il suo ambito entro la Chiesa e
aumentandone il peso Anche gli altri Padri espressero le loro osservazioni,
dopodiché lo schema venne nuovamente redatto da una delle
sottocommissioni centrali, di cui il vescovo di Cracovia venne chiamato a far
parte. Il futuro papa incontrò in questa sottocommissione molti insigni
teologi, come ad esempio Yves Congar, i cardinali Jean Daniélou e Bernard
Häring (tra gli uditori vi erano Mieczyslaw Habicht e il prof. Stefan
Swiezawski). Non ci soffermeremo qui su tutti i dettagli dell'attività e
degl'incontri del vescovo di Cracovia al Concilio; vogliamo solo aggiungere
l'elenco dei suoi discorsi, notando che il vescovo Wojtyla - insieme col primate
Wiszynski e il vescovo Klepacz - era quello che prendeva la parola più
spesso.
GLI INTERVENTI PRINCIPALI
ottobre 1962 (prima sessione) -
Discorso
sullo schema sulla liturgia
21 novembre 1962 -
Discorso sullo schema
sulle fonti della rivelazione
21 ottobre 1963 (seconda sessione) -
Discorso sullo schema sulla Chiesa
25 settembre 1964 (terza sessione)
-
Discorso sullo schema sulla libertà religiosa
8 ottobre 1964
-
Discorso sullo schema sull'apostolato dei laici
21 ottobre 1964 -
Discorso sullo schema la Chiesa nel mondo contemporaneo
22 settembre
(quarta sessione) -
Discorso sullo schema sulla libertà
religiosa
28 settembre 1965 -
Discorso sullo schema la Chiesa nel
mondo contemporaneo
LE BASI DEL RINNOVAMENTO
In verità la voce del futuro Giovanni Paolo
II risuonò su quasi tutti i documenti più importanti del Concilio.
E non era solo la voce dell'uomo della fede e di un pastore d'anime di grande
esperienza né di uno scienziato che stupisce con la profondità
delle sue speculazioni teologiche, etiche e filosofiche; in questi interventi si
rivelava una formazione spirituale moderna di un vescovo che ha sulle spalle
un'esperienza molteplice. La sua visione del mondo non trascurava i «segni
del tempo» e denotava un atteggiamento antitradizionale verso la
problematica discussa; senz'altro questa formazione era molto lontana
dall'atteggiamento estremistico. Questo atteggiamento non disturbava in nessun
modo la ricerca di un rapporto equilibrato con la realtà, un rapporto
naturale e senza forzature, in cui il coraggio di essere d'accordo non deve
escludere il coraggio di essere contro.
Durante il Concilio il futuro papa
parlò più di una volta alla Radio Vaticana, mandando lettere
pastorali ai fedeli e informandoli sistematicamente sullo svolgimento dei
dibattiti di Roma. «Lavorando su questa importante questione - disse il 20
ottobre 1965 nella sua relazione radiofonica sulla Dichiarazione sulla
libertà religiosa molte volte ci viene in mente il Concilio di Costanza e
il rettore dell'università cracoviense, Pawel Wlodkowic, il quale
sosteneva a Costanza che non è lecito convertire al Cristianesimo
né con la spada né con la forza, e lo diceva pensando ai crociati
e alle loro guerre di religione. La storia ci ha allontanato da quei fatti ma il
problema è rimasto».
Il Concilio Vaticano II fu anche il tema
importante delle omelie e delle lettere pastorali successive e degli articoli di
Wojtyla, e prima di tutto del suo impegnativo libro «Le basi del
rinnovamento», edito nel 1972, che è uno studio sulle realizzazioni
del Vaticano II e una «prova dell'iniziazione» dei contenuti
conciliari.
VIAGGIO IN TERRA SANTA
Il vescovo Wojtyla partì alla volta della
Terra Santa prima del Natale 1963, assieme ad un gran numero di partecipanti al
Concilio, fra i quali v'erano vescovi polacchi.
L'itinerario di questo
viaggio prevedeva come prima tappa la visita a Gerusalemme e dintorni, e come
meta finale, la lontana Galilea.
Gerusalemme, la città che aveva
condannato a morte Cristo, suscitò sentimenti di depressione e di
tristezza. Lungo le sue vie antiche e strette s'innalzavano le stazioni della
Via Crucis, ma solo due di esse: la terza - dove Cristo cadde sotto la croce, e
la quarta - dove incontrò Maria, si conservano ancora intatte: alla loro
vista la commozione religiosa si mescolò ai sentimenti patriottici che di
colpo si risvegliarono. O destino polacco! Dopo la seconda guerra mondiale
queste cappelle erano state restaurate proprio dai nostri connazionali che non
hanno dimenticato di creare un piccolo museo di memorie polacche.
Oltre a
queste due cappelle, anche la chiesetta di S. Pietro in Tiberiade era
testimonianza dei sentimenti religiosi del popolo errante polacco. Infatti
questa chiesa fu restaurata, durante l'odissea della guerra, dai soldati del
secondo corpo d'armata polacco del generale Anders; e furono quei soldati ad
innalzare anche la statua del Primo Apostolo. Essi non immaginavano, allora, che
la loro opera sarebbe stata ammirata da un compatriota destinato dalla
Provvidenza a divenire il successore di Pietro. Il pensiero che più li
affliggeva in quel tempo era la guerra e la perduta indipendenza della patria
sconfitta; ogni altro gesto, quindi, era solamente un puro e disinteressato
bisogno di attestare la loro spontanea religiosità; però Colui che
camminò su questa terra disse: «Non c'è nulla di nascosto che
non debba essere manifestato e nulla di segreto che non debba esser messo in
luce» (Mc 4, 22).
I padri sinodali non tralasciarono di visitare anche
gli altri luoghi sacri, ed in quel tiepido dicembre in Terra Santa, mentre
cambiava il paesaggio scorrevano le pagine della Sacra Scrittura: Nazaret, con
la casetta della Sacra Famiglia; la chiesa e la cripta dell'Annunciazione; le
rovine di Cafarnao, la città dove il paralitico fidente riacquistò
le forze; il monte Tabor, dove avvenne la Trasfigurazione e dove gli apostoli
videro una nube bianca «... e dalla nube uscì una voce che diceva:
Questo è il mio figlio, l'eletto, ascoltatelo» (Lc 9, 35).
E
poi ancora, il pozzo di Giacobbe a Sychem, dove ancor oggi si riflette la luce
nell'acqua eterna nel suo perdurare reale. Ricordate? Fu proprio questo pozzo ad
accendere l'immaginazione del poeta Andrzej Jawién quando scrisse gli
stupendi versi del «Canto dello splendore dell'acqua» (edito in Italia
dalla Libreria Editrice Vaticana, nel 1979, nel volume intitolato: «Il
sapore del pane»).
Il pellegrinaggio in Terra Santa si concluse il 15
dicembre 1963 e ciascun vescovo tornò nell'ovile di Cristo.
Intanto
in Vaticano si apprestavano a scrivere la «bolla
nominativa»:
«Paulus episcopus servus servorum Dei
venerabili fratri Carolo Wojtyla, adhuc sacro Antistiti Sedis titulo Ombitanae,
electo Archiepiscopo Metropolitae Cracoviensi, salutem et apostolicam
benedictionem...»
Wojtyla con Wyszynski a Cracovia per il giubileo di San Stanislao Vescovo
1964, INGRESSO A WAWEL
Nella domenica dell'8 marzo 1964 ebbero luogo le
celebrazioni dell'ingresso dell'Arcivescovo Wojtyla nella basilica di Wawel. Il
giorno precedente il Nominato ricevette un telegramma dal Cardinale Wyszynski,
Primate di Polonia:
«L'ingresso di Vostra Eccellenza
nell'Arcicattedrale di S. Venceslao a Wawel, sul trono di S. Stanislao Vescovo
Martire, e del venerato Vincenzo Kadlubek, è salutato da tutti i fedeli
con grandissima gioia e con sovrannaturali sentimenti di comunione nella
preghiera e nella speranza. Con il cuore, con la preghiera e con le mani
fraterne benediciamo l'arcipastore di Cracovia, e, attraverso il cuore Suo,
auguriamo la pienezza della grazia e dell'amore divino ai sacerdoti
dell'Archidiocesi, alle Congregazioni e al Popolo di Dio».
Quella
domenica di marzo, secondo il calendario liturgico, portava il nome di
«laetare», gioiosa. Ed infatti fu veramente e pienamente gioiosa,
perché il governo dell'arcidiocesi, dopo essere rimasto vacante per
tredici anni, passava nelle mani del settantaseiesimo pastore, a cominciare
dall'anno 1000, e del secondo, dopo Sapieha, metropolita della sua
storia.
Tutto in quel giorno si rivestì di un'atmosfera di festa
serena. Il coro davanti alla cattedrale salutò l'arcivescovo con un
fortissimo:
Ecce Sacerdos Magnus
qui in diebus suis placuit
Deo...
Il luogo non poteva essere scelto meglio, perché questa
cattedrale pantheon, di lì a poco, avrebbe celebrato il seicentesimo
anniversario della sua consacrazione!
La collina di Wawel era cosparsa di
bandiere variopinte, festoni, galloni, corone, cotte, abiti talari che si
mescolavano con la folla altrettanto colorita e festosa. Le delegazioni,
arrivate da tutte le regioni della Polonia, si distinguevano per i costumi
tradizionali; tutte le campane di Cracovia partecipavano alla festa, ma su tutte
dominava il lento, calmo ed austero suono della campana
«Sigismondo».
L'arcivescovo entrò nella cattedrale e
pregò davanti alla confessione di San Stanislao Vescovo. In alto,
sorretto da quattro angeli, dominava il sarcofago del santo; in basso, inserita
nel pavimento, una semplice lastra informava: «Qui giace Adam Stefan
cardinale Sapieha»...
Durante la santa Messa vennero lette le bolle
papali e venne eseguito il cerimoniale dell'Homagium. Il Metropolita indossava
un eccezionale paramento arcivescovile: due infule, una settecentesca,
appartenente al vescovo Andrzej Lipski, e un'altra ottocentesca, usata da un
altro dignitario, Jan Lipski (la coincidenza dei nomi è casuale). Sotto
la cappa magna viola, bordata di ermellino, sporgeva una pianeta pesante di seta
bianca, lasciata in eredità alla Chiesa dalla pia regina Anna
Jagellonica. Al dito splendeva l'anello con lo smeraldo che, nove secoli prima,
era appartenuto al vescovo Maurus e che era stato scoperto durante gli scavi
archeologici nella cripta di S. Leonardo. Anche il pastorale era antico,
perché proveniva dai tempi del re Giovanni Sobieski. Ma l'oggetto
più prezioso portato quel giorno dal Metropolita fu il razionale che,
similmente al pallio, era il segno del potere ricevuto; era formato da due
strisce incrociate sul petto, ed eseguito secondo le norme indicate nel Vecchio
Testamento: «Farai il pettorale del giudizio, artisticamente lavorato, di
fattura uguale a quella dell'efod: con oro, porpora viola, porpora rossa,
scarlatto e bisso ritorto. Sarà quadrato, doppio; avrà una spanna
di lunghezza e una spanna di larghezza. Lo coprirai con una incastonatura di
pietre preziose disposte in quattro file. Una fila: una cornalina, un topazio e
uno smeraldo: così la prima fila. La seconda fila: un turchese, uno
zaffiro e un berillo. La terza fila: un giacinto, un'agata e un'ametista. La
quarta fila: un crisolito, un onice e un diaspro. Saranno inserite nell'oro
mediante i loro castoni» (Es. 28, 15-20).
Oggi il privilegio di
portare il pettorale appartiene solamente ai quattro ordinari di quattro diocesi
al mondo: a quella di Cracovia, e a quelle di Paderborn, di Eichstaedt e di
Toul-Nancy. Il pettorale portato in quel giorno dal nostro Metropolita fu
ricamato, sembra, dalla nostra pia regina Edwige: «Hedwigis Regina Ludovici
Regis filia» - come annuncia la scritta su di esso.
Che cosa pensava
l'arcivescovo Wojtyla quando, al cospetto della storia, onnipresente su questa
collina e in questa cattedrale, diventava il governatore della chiesa di
Cracovia?
«Tutti ci rendiamo conto - disse durante l'omelia - che non
è possibile varcare la soglia di questa Cattedrale senza commozione,
anzi, direi di più, non è possibile varcarla senza un brivido
interiore, senza timore; perché in essa è contenuta - come in
poche altre cattedrali del mondo - l'immensa grandezza attraverso la quale ci
parlano tutta la nostra storia, tutto il nostro passato. E il nostro passato, la
nostra storia si rivolgono a noi con l'insieme dei monumenti, si rivolgono a noi
con l'insieme dei sarcofaghi, degli altari e delle opere d'arte, ma soprattutto
si rivolgono a noi con l'insieme dei nomi e delle iscrizioni. Tutti questi nomi
ed iscrizioni hanno un'identità, mentre nell'insieme segnano le tappe del
grandioso millenario cammino della nostra storia.
Se perfino l'uomo che
entra quale pellegrino occasionale in questa Cattedrale, deve arrestarsi al
cospetto di tanta grandezza, potrebbe non arrestarsi l'uomo che entra per
apportare alla realtà esistente un qualcosa di nuovo?
Con tali
sentimenti che mi è perfino difficile esprimere, perché superano
la capacità del cuore umano, sono sempre entrato in questa Cattedrale; vi
rientro oggi, per voi e per me, rivestito di un nuovo carattere. Appena entrato,
tutto il passato mi si è rappresentato come un grande disegno del quale
emergono solo alcuni particolari. Questi particolari, specialmente i più
vicini al cuore, mi hanno sempre accolto, ed oggi, con questo mio ingresso li
faccio miei.
Il sarcofago di San Stanislao vescovo di Cracovia è
senza dubbio un tale particolare; quale testimonianza racchiude questo
nome!
Ieri sera mi sono recato in pellegrinaggio, per ricevere ispirazione,
alla tomba di un altro Vescovo di Cracovia, il beato Vincenzo Kadlubek, e quando
oggi mi sono trovato davanti al sarcofago di San Stanislao, ho avuto la
consapevolezza che sotto questo altare riposa - ho timore di dirlo - il mio
Predecessore. Ho timore a pronunciarne il nome e il cognome: Cardinale Adamo
Stefano Sapieha, perché tutti in Polonia sanno cosa egli rappresenti; di
tale uomo, lo abbiamo sentito poco fa, il Santo Padre mi ha designato
successore.
Nel 1946, il 1° novembre, il Cardinale Sapieha mi impose
le mani e mi ordinò sacerdote: mi generò al sacerdozio.
Era
anche doveroso per me soffermarmi, e mi sono soffermato, davanti ad un altro
luogo: la tomba della regina Jadwiga (Edvige); la nostra grande aspirazione, la
nostra grande speranza, il passato che in una maniera così singolare si
unisce al nostro presente.
Un posto ancora, che si trova qui vicino, devo
additarvi in questa grande rassegna di monumenti, ma soprattutto di nomi,
cognomi e persone: l'arcivescovo metropolita Eugenio Baziak. Fu lui che impose
nuovamente le mani su di me, consacrandomi vescovo, il 28 settembre 1958. Sono
stato a lui legato nell'Episcopato in quella speciale fratellanza che lega i
Vescovi nell'unità della loro vocazione».
Poco tempo dopo
l'arcivescovo Wojtyla tornò a Roma per la seconda sessione del Concilio
Vaticano II: in quest'occasione ricevette dalle mani di Paolo VI il pallio.
Questo segno del potere ecclesiale e dell'unione con l'eredità di S.
Pietro lo indossò per la prima volta nel 1964 durante la solenne Messa di
Natale, a Cracovia.
Passarono ancora tre anni; quando il 26 giugno 1967 il
Santo Padre Paolo VI annunciò l'elenco dei ventisette nuovi cardinali,
nella grande aula dell'Auditorio Pio XII, in via Conciliazione, il cardinale
Cicognani, allora segretario di Stato, consegnò i decreti di nomina. Uno
di essi, con la perenne formula, annunciava:
«Romae
in
aedibus apostolicis Vaticanis
ante diem VI calendas iulias
anno Domini
MCMLXVII
Paulus VI Pont. Max.
creavit ac renuntiavit
S. R. E.
Presbyterum cardinalem
Carolum Wojtyla...» etc.
il che si
può tradurre così:
Roma
nella sede apostolica del
Vaticano
il giorno sesto prima delle Calende di
luglio nell'anno del
Signore 1967
Paolo VI Pontefice Massimo ha creato e proclamato
Karol
Wojtyla
prete cardinale di Santa Romana Chiesa......
BERRETTA ROSSA
Due giorni dopo, il 28 giugno 1967, i neocardinali
ricevono dal Papa i berretti purpurei: «Per la gloria di Dio onnipotente e
per la gloria della Chiesa - diceva Paolo VI ad ogni cardinale nel momento di
porre la berretta - accogli questo segno distintivo della investitura
cardinalizia, per la quale devi diventare il difensore della fede fino allo
spargimento del tuo sangue».
Quando il cardinal Wojtyla si
avvicinò al Papa, per la prima volta scrosciarono gli applausi. Come si
vede, quel polacco non era una persona sconosciuta...
Il futuro papa
Giovanni Paolo II diventa così il decimo cardinale della sede
cracoviense. Nell'arco di dieci secoli in questa diocesi si erano succeduti
cardinali appartenenti alle più illustri casate della Repubblica Polacca,
eppure nessuno si meravigliò quando a questi nomi si aggiunse quello di
un modesto provinciale di Wadowice. Forse qualcuno, trovatosi per caso alla
stazione ferroviaria di Katowice, in Polonia, sarà rimasto sorpreso alla
vista di quel giovane prete in spolverino, che, tornato da Roma, veniva
acclamato come cardinale.
Prima di lasciare Roma il cardinale partecipa,
con un gruppo di trecento pellegrini polacchi, ad una udienza papale; e fu
durante questa occasione che Paolo VI, dopo aver ricordato il suo soggiorno in
Polonia, li pregò di parlargli in lingua polacca. Paolo VI era stato
ospite della Polonia due volte; una volta come inviato della nunziatura romana;
e la seconda per concelebrare, insieme con il Principe Metropolita, la
consacrazione delle campane della chiesa di Auschwitz.
Il cardinal Wojtyla,
tornando in Polonia, passava per Venezia e per Vienna dove, sulla collina di
Kahlenberg, celebrava la S. Messa. È questa la collina dove la Polonia visse un
frammento della propria storia: qui il re polacco Giovanni Sobieski ottenne una
grande vittoria sui Turchi, nel 1683. Dopo questa tappa, che ricorda momenti
felici vissuti dai Polacchi, il nostro cardinale non dimenticava di fermarsi sul
luogo in cui, come vuole la leggenda, espiò la sua gran colpa l'infelice
re polacco Boleslao il Coraggioso, che nell'anno 1079 aveva ordinato l'uccisione
di S. Stanislao, divenuto il più venerato santo polacco. Questo luogo di
tristi ricordi si chiama Osjak.
Sulla strada del ritorno Wojtyla si
sofferma pure su quel luogo intriso ancora di recenti tragedie, ove nella loro
immobilità sopravvivono i resti di un campo di concentramento,
Mauthausen.
Il 9 luglio 1967 il Metropolita di Cracovia fa il suo ingresso
solenne, come cardinale, nell'arcicattedrale di Wawel. Qualche mese dopo,
nuovamente a Roma, proprio perché porporato, gli veniva concesso, secondo
la tradizione, di celebrare la messa nella chiesa di S. Cesareo, in via di Porto
S. Sebastiano, vicino alle Terme di Caracalla. Fu probabilmente in questa
occasione che i fedeli romani sentirono parlare per la prima volta della lontana
città di Wadowice, alla quale accennava il cardinal Wojtyla nella sua
omelia, e dove si sarebbero svolte, il 18 febbraio 1968, le celebrazioni per il
passaggio della miracolosa immagine della Madonna di Czestochowa.
SACRUM POLONIAE MILLENIUM
Un anno importante per i Polacchi, questo 1968,
anno in cui continuavano le celebrazioni del millenario della Polonia cattolica,
battezzata, come è noto, insieme con il suo principe Mieszko I, nell'anno
.
Durante i primi festeggiamenti di questo Millenario, che cadeva
precisamente nel 1966, Wojtyla scriveva un poema dal titolo «Veglia
pasquale 1966» (pubblicato in Italia dalla Libreria Editrice Vaticana,
insieme con le altre poesie, nel volume «Pietra di luce»,
).
Il poema s'incentra sulla figura di Mieszko I, che sente il
battesimo, ricevuto assieme al suo popolo, come una «lacerazione»
aperta dal santo innesto della cristianità. Questo primo sovrano
cattolico della storia polacca sa che l'albero innestato è più
prezioso perché dona più frutti, eppure molte incertezze gli si
fanno incontro; ma agli interrogativi del dubbio arrivano presto le
risposte:
...Nella storia il corpo umano muore più
spesso
e muore prima dell'albero.
Perdura l'uomo oltre la soglia di
morte
nelle catacombe e nelle cripte.
Perdura l'uomo che se ne va in
tutti
quelli che vengono dopo di lui.
Perdura l'uomo che viene in
tutti quelli
che prima se ne andarono.
Perdura l'uomo di là da
ogni partenza o
venuta
in sé
e in Te.
La
storia degli uomini come me cerca
il Corpo che Tu darai loro.
Nella
storia ciascuno perde il suo corpo
e s'avvia ad
incontrarTi.
Nell'istante della partenza ciascuno è
più
grande degli eventi di cui
egli fu minima parte (scheggia di un certo
secolo
o schegge di due secoli, riunite in una vita)...
Si sente
qui assieme alla voce del pastore di Cristo, anche quella del filosofo del
personalismo, per il quale il passato, sempre palpabile, pulsante di sangue
vivo, partecipa, prima di tutto, alla formazione delle anime, nel grande cammino
mai interamente compiuto ma sempre da compiersi, che guida l'umanità
verso Dio. La prospettiva dell'eternità domina sempre, nella storia,
sull'ordine temporale, e nello spazio in cui s'incontra l'uomo con il Creatore
nasce il senso morale-religioso dell'eternità. Molte volte ancora il
poeta tornerà a queste considerazioni, quando rifletterà sul suo
popolo, sulle vicende della Polonia, su tutta la collettività umana,
infine: quando, pieno di sollecitudine, si rivolgerà al mondo odierno, il
mondo incantato dalle scoperte scientifiche e tecnologiche, il mondo assediato
dalle ideologie politiche, che sempre più sembra aver perso la coscienza
della prospettiva dell'eternità.
Nei testi degli esercizi
spirituali, da lui condotti in Vaticano e raccolti in Italia nel libro
«Segno di contraddizione» (ed. Vita e Pensiero, Milano, 1977)
troviamo:
«Quando noi polacchi del XX secolo pensiamo al nostro
passato, a quello che dovevano pensare i nostri padri nel secolo scorso, nel
periodo della spartizione della Polonia, questa riflessione rileva non soltanto
i cosiddetti errori politici compiuti nella storia, ma soprattutto i peccati, le
nostre colpe morali. «I padri mangiarono uva acerba, e sono rimasti
allegati i denti dei figli» (Ger. 31,29; Ez 18,2). L'opera di riparazione e
di ricostruzione iniziava da un «esame di coscienza nazionale», come
si fa in ogni confessione. Anche ora, quando guardiamo alle sorti del nostro
continente dopo la seconda guerra mondiale, affiorano analoghe riflessioni e
conclusioni. Ci sembra che non sarà possibile identificare fino in fondo
quella che viene spesso chiamata «crisi della Chiesa» in Europa, se
non si penetrerà nei vari periodi della storia e non si decifreranno
incrostazioni che i peccati (problemi sociali, colonialismo, imperialismo) hanno
lasciato; occorre forse anche applicare fino ad un certo punto l'analogia del
subconscio umano, della cattiva coscienza, come fanno nell'antropologia e
nell'etica diversi pensatori contemporanei».
La storia sarebbe
dunque storia delle coscienze; una curiosa panoramica di bene e di male. In una
delle più belle poesie dedicate alla patria, scritta nel 1974,
leggiamo:
Pensando patria, ritorno verso l'albero...
1.
L'albero della scienza del bene e del male sorgeva in riva ai fiumi della nostra
terra, esso crebbe con noi nei secoli, affondò nella Chiesa le radici
delle coscienze.
Portammo frutti opulenti e pesanti. Sentimmo il profondo
spacco del tronco, benché le radici s'intrecciassero in un unico
suolo...
La storia stende sopra la lotta delle coscienze uno strato di
eventi. In questo strato vibrano vittorie e sconfitte. La storia non le ricopre,
anzi le fa risaltare. (...) Può andar la storia contro la corrente delle
coscienze?
2. In quale direzione si protendono i rami del tronco? In
quale direzione le coscienze? Ed in quale direzione la storia della nostra
terra? L'albero della scienza non conosce confini.
Un solo confine, la
Venuta che in un Corpo unirà le lotte delle coscienze ed il mistero degli
eventi - e muterà l'albero della scienza in una Fonte, sempre più
copiosa, di Vita.
Ogni giorno, intanto, porta lo stesso spacco nel pensiero
e nell'atto, da cui la Chiesa delle coscienze cresce sulle radici della
storia.
Tutti questi frammenti degli scritti di Karol Wojtyla, finora
citati, tratteggiano, in qualche modo, il suo pensiero storico, dal quale non
possiamo prescindere se vogliamo comprendere la personalità profondamente
religiosa del futuro Papa; come pure non possiamo ignorare i suoi discorsi
pronunciati durante la celebrazione millenaria del cristianesimo in Polonia, se
vogliamo comprendere la sua attenzione per la storia dell'uomo, passata e
presente.
Il presente, si sa, non è stato mai facile.
Anche le
celebrazioni del Millennio in Polonia lo dimostrano: esse si svolsero in
un'atmosfera tesa, per le diversità di opinioni tra la Chiesa ed il
Governo sul significato dei festeggiamenti. La Chiesa celebrava la chiusura
della Grande Novena che per dieci anni era stata esaltata in riconoscenza per la
grazia della fede ricevuta; nello stesso tempo, il 3 maggio 1966, a Jasna
Góra (Czestochowa) veniva celebrato il voto fatto alla Madonna, secoli
prima, dal re Jan Kazimierz (Giovanni Casimiro). Il primate di Polonia,
cardinale Wyszynski, con tutto l'episcopato offriva «tutto il gregge alla
materna schiavitù della Madonna per la libertà della chiesa nel
mondo ed in Polonia». Ancora una volta la Madre di Dio veniva onorata come
regina e patrona del popolo polacco. La sua immagine una copia del quadro di
Jasna Góra consacrata da Pio XII - veniva portata in processione in tutte
le diocesi dove, ogni volta, si ripeteva l'atto del voto.
Il corteo che
accompagnava il quadro giunse a Cracovia nella tarda sera del 6 maggio 1966. Il
futuro successore di Pietro, veneratore di Maria, instancabile pellegrino sui
sentieri di Calvaria (ricordate la Kalwaria Zebrzydowska, descritta all'inizio
del nostro libro?), pronunciava queste parole con
umiltà:
«Ti offro in dono, o Madre, io, Pastore della
chiesa di Cracovia, tutta questa chiesa, oggi e nel futuro. Se diverrà
Tua proprietà, allora, malgrado tutti gli ostacoli e tutte le
difficoltà, il Cristo durerà e crescerà dentro di noi. O
Madre, noi siamo il Tuo podere, Tu la nostra fiducia. Accogli, come Tuo bene, la
nostra infinita fiducia».
Il giorno dopo si svolgeva, nella
Cattedrale, la sessione scientifica, pubblica, dedicata al Millennio, alla
presenza dell'episcopato. Il Metropolita dedicava il suo discorso al Principe
Sapieha ed alle vicissitudini dei sacerdoti durante l'ultima guerra mondiale. La
figura di Sapieha veniva accostata a quella del «Principe costante» di
Calderón della Barca, ed a tal proposito venivano citate le parole dello
scrittore spagnolo: «Non contro le leggi dello spirito lo schiavo deve
obbedire al padrone»; una massima cui si ispirava, in quei tempi ostili, il
pastore di Cracovia.
Tengono i loro discorsi anche l'arcivescovo di
Wroclaw, mons. Kominek (sui legami tra Cracovia e la Slesia, negli ultimi due
secoli); il prof. Adam Vetulani (sul contributo dell'arcidiocesi alla cultura
nazionale); il prof. Marian Plezia (sull'aspetto medioevale di un tale
contributo), ed infine il rev. Alfons Schletz (sul ruolo della beneficenza nei
secoli).
Le celebrazioni del Millennio assorbiranno ancora per molto tempo
il nostro Metropolita, che continuava a spostarsi, instancabile come sempre, da
una parte all'altra della Polonia, sempre pronto alla preghiera nella
comunità del popolo di Dio, e sempre disponibile al servizio
pastorale.
RESPONSABILITÀ CRESCENTI
Intanto gli venivano offerti nuovi titoli, nuove
dignità e con esse... nuovi obblighi. Nel 1966 viene chiamato a far parte
della Pontificia Commissione per il matrimonio e la famiglia, e poi, nel 1967,
del Pontificio Consiglio per le Chiese Orientali. Nel 1970 farà parte
della Sacra Congregazione per i Sacramenti ed il Culto Divino.
Mons.
Wojtyla partecipò a tutte le sessioni del Sinodo dei Vescovi svoltesi a
Roma, ad eccezione della prima, quella del 1967, divenendone una figura di primo
piano. Invitato personalmente da Paolo VI, individualmente e non quale delegato
dell'Episcopato, partecipò alle sessioni dell'anno 1969, e si
manifestò come fervido sostenitore della collegialità del potere
della Chiesa e del suo pluralismo culturale; precisò in che cosa doveva
consistere questa collegialità, cosa che, essendo oggi divenuto egli
stesso il massimo rappresentante della Chiesa, acquista un valore
particolare:
«Tutto questo si svolge in una duplice dimensione. In
primo luogo attraverso il dialogo dei Vescovi fra di loro e delle conferenze
episcopali, che sono condotte nello spirito del servizio proprio della
diaconìa del primo cristianesimo. Questo deve essere necessariamente un
dialogo e non una supremazia delle opinioni degli uni sugli altri. In secondo
luogo, attraverso la cooperazione con il Santo Padre, si deve sviluppare sotto
il duplice aspetto ascendente e discendente contemporaneamente: cum Petro e sub
Petro.
L'aspetto ascendente si realizza attraverso la partecipazione attiva
nella preparazione dei provvedimenti papali, il che dovrebbe accadere molto
spesso.
L'aspetto discendente consiste nell'accettare le disposizioni
impartite dal Santo Padre autonomamente - sia per tutta la Chiesa, sia per le
Chiese particolari, il che può aver luogo di tanto in tanto. Sviluppare
la dottrina e la pratica della collegialità è una cosa di estrema
importanza.
Il Sinodo dei Vescovi del 1971 era dedicato a due problemi: al
sacerdozio ministeriale e alla giustizia nel mondo, come erano intitolati i
documenti delle riunioni. Nella discussione circa il sacerdozio ministeriale e
sacramentale, il Metropolita di Cracovia difese il principio del celibato dei
preti, non divergendo in ciò dalla maggioranza dei partecipanti. Quando
invece venne trattato il problema della giustizia nel mondo contemporaneo, il
futuro papa, stigmatizzando coraggiosamente tutte le manifestazioni e le
situazioni che ne sono la negazione, espose, del resto non per la prima volta,
la tesi secondo la quale la libertà delle coscienze e della religione
è un elemento inseparabile da ogni giustizia sociale e politica, e ne
è la testimonianza. Nello stesso Sinodo il Vescovo di Cracovia fu scelto
come uno dei dodici membri del Segretariato del Sinodo, carica che, eletto
nuovamente, mantenne nelle sessioni dei due Sinodi successivi.
La sua
autorità cresceva. Durante il Sinodo del 1974 il Cardinale Wojtyla fu tra
i relatori; in quel periodo prese la parola intorno alle questioni teologiche
legate all'evangelizzazione nel mondo contemporaneo. Svolse anche un ruolo
importante durante il Sinodo del 1977, che fu dedicato ai problemi della
catechesi dei bambini e dei giovani. Potremmo affermare che nel Sinodo dei
Vescovi, di cui in quegli anni fu segretario generale il Vescovo Ladislao Rubin,
oggi Cardinale, la Chiesa tutta vide finalmente in pieno, nel Metropolita di
Cracovia, ciò che aveva cominciato a notare durante il Concilio: la
singolarità della persona, le sue straordinarie doti di uomo di fede, di
pastore, di intellettuale ed infine di organizzatore del lavoro
ecclesiastico.
Papa Paolo VI seppe apprezzarlo. Sono noti gli sforzi del
Metropolita di Cracovia legati all'Enciclica «Humanae vitae», che ha
suscitato controversie in molti ambienti: in quella Enciclica il Santo Padre
Paolo VI, facendo presente l'ideale cattolico del matrimonio e della famiglia,
si espresse in modo deciso contro il divorzio e la limitazione artificiale delle
nascite. Il Cardinale Wojtyla, essendo a Roma in quel periodo, ad limina
apostolorum, rese note al Santo Padre le posizioni della Chiesa polacca circa il
documento e, subito dopo, su invito di Paolo VI, collaborò, insieme con i
teologi moralisti di Cracovia, alla stesura del «Commento teologico
pastorale alla Humanae vitae», pubblicato prima sulle
«Notificationes» e stampato più tardi in un volume a parte, a
Roma (1969). Inutile rilevare l'importanza che rivestiva tale
«Commento», che fu scritto quasi interamente dalla stessa penna di
«Amore e responsabilità», libro che del resto anticipava i
contenuti dell'Enciclica e proprio allora veniva tradotto in lingua italiana e
spagnola. L'erudito cardinale polacco riscuoteva dunque stima quale esperto
della problematica morale.
ATTIVITÀ SCIENTIFICA
Libero dalle tentazioni del rinnovamento
sensazionale, Wojtyla seguiva invece diligentemente, nelle proprie riflessioni,
i contenuti del Vangelo.
Lo assorbiva molto l'attività scientifica.
Parte delle sue 392 pubblicazioni sono costituite da saggi, monografie e studi
scientifici in diverse lingue, prima della sua ascesa al trono di Pietro. Nello
stesso 1969 fu pubblicato il libro «Persona e Azione». Secondo le
affermazioni dello stesso autore, questo libro, come anche uno successivo,
«Alle basi del rinnovamento», è legato ai lavori del Concilio
Vaticano II e in particolare ai lavori della commissione che preparava la
Costituzione sulla «pastorale della Chiesa nel mondo contemporaneo»,
della quale il metropolita di Cracovia faceva parte, come già sappiamo.
Di che cosa parla il libro? Esso fonda lo studio della persona attraverso
l'atto, conducendo un'analisi psicologica ed etica dell'evolversi della persona
stessa, cioè della formazione e manifestazione della sua essenza come
risultato delle azioni umane consapevoli.
«Divenire» dice
l'autore, è quello che in latino intendiamo con la parola
«fieri»; attraverso tale termine possiamo capire l'uomo stesso quale
soggetto di dinamismo.
Il concetto di «divenire» definisce il
carattere della morale della persona, il genere della sua umanità, il
grado della libertà e delle dipendenze dal mondo, e la struttura del suo
legame sociale con le altre persone. Perché tale processo possa
raggiungere la pienezza, non può fare a meno del fattore trascendente,
che propriamente dirige la persona verso valori veri, che vi innesta gli ideali
dei doveri e delle responsabilità, protegge da ogni azione istintiva,
spontanea, depauperizzante.
FENOMENOLOGO TOMISTA
«Persona e azione», libro basato su
concezioni personalistiche, mostrando atteggiamenti autenticamente umani e
sottolineando in essi il ruolo della coscienza si rivela contro l'individualismo
e contro il totalitarismo: fenomeni che non permettono l'integrazione della
persona con l'atto, e per ciò stesso devono essere considerati
negativamente. Tale studio è un'esaltazione della persona realizzantesi
si nell'atto, ma in mezzo agli altri, nella comunità umana. In quanto
personalista l'autore indica spesso che la persona si realizza in modo duplice:
immanente, rivolgendosi al profondo della propria essenza e là
realizzando il fieri; ma pure in maniera comunitaria, cioè attraverso i
legami con altre persone. L'elemento di questo manifestarsi comune della persona
è molto rimarcato nella riflessione antropologica del filosofo Wojtyla,
considerato come personalista oppure come un fenomenologo tomista, come qualche
volta viene definito. La questione della comunitarietà sembra essere per
lui una categoria che si svincola dalle strette normali del tempo e che perdura
oltre la vita terrestre della persona.
Ad avallare questa opinione
può servire un frammento dell'articolo commemorativo sul prof. Wicher.
Desidero citarlo per evidenziare meglio in che modo all'attività
scientifica del Metropolita di Cracovia si univa quella di animatore e
organizzatore, pur trattando, quel frammento, della scienza come creazione,
oltre i valori suoi propri dei legami interpersonali e
multitemporali:
«Quando si tratta della Facoltà Teologica
dell'università Jagellonica - scrisse nel 1970 il futuro papa; ultimo
docente nella storia di questa facoltà, che dopo è stata chiusa -
bisogna pensare in modo storico. Tutte queste generazioni di professori,
scienziati ed insegnanti, sono in essa presenti non solamente in base alla
formale successione delle discipline e delle Cattedre, ma anche in base al
vivificante ereditare e trasmettere. La scienza è un bene che viene
trasmesso ed ereditato. E questo accade non esclusivamente attraverso le cose,
ma anche attraverso le persone; non solamente attraverso i libri e le dispense,
ma anche nella trasmissione e capacità di ricezione fra persone vive. La
tradizione che si tramanda produce le genealogie degli scienziati, tra i quali
si crea un legame simile a quello del sangue, una procreazione spirituale legata
all'atteggiamento verso la scienza.
Ogni scienziato trasmette ad un altro
una parte della sua anima; il retaggio delle suggestioni è, spesso,
l'orma dell'itinerario difficile e complicato che ha percorso per arrivare alla
verità.
Nello stesso tempo lo scienziato osserva in quale punto del
suo bagaglio d'esperienza spunterà un nuovo germoglio, spesso diverso,
generato da altre suggestioni e da metodi nuovi. La genealogia degli scienziati
vive nell'ambiente della scienza e lo caratterizza».
Ma quale fu
l'attività di animatore e organizzatore del Metropolita in campo
scientifico? Il futuro papa partecipò, con particolare assiduità,
a tutti i congressi dei teologi polacchi del dopoguerra (1958, 1966, 1971,
), dei quali l'ultimo, quello di Cracovia, si svolse sotto la sua
protezione, nell'affascinante cornice dell'abbazia dei cistercensi a Mogila, e
si iscrisse nella storia come il più significativo e brillante. Il fatto
è che raccolse circa settecento scienziati fra polacchi e
stranieri.
Per iniziativa del Metropolita si svolsero a Cracovia diversi
incontri scientifici, quali, ad esempio, la sessione già ricordata in
occasione del Millennio, come pure un'altra dedicata a San Stanislao Vescovo e
Martire; poi un simposio teologico-filosofico sul problema dell'interpretazione
dei dogmi; un simposio sugli aspetti specialistici dell'interruzione della
gravidanza, al quale intervennero circa duecento tra medici, docenti di medicina
pastorale e moralisti; un simposio dedicato a un noto psichiatra e umanista,
Antonio Kepinski.
Si tennero anche incontri di carattere scientifico del
tutto privati, o nel Palazzo Arcivescovile o nelle case amiche; il futuro papa
amava la compagnia di scienziati, artisti, scrittori, fra cui i più vari
specialisti sia laici sia appartenenti al clero.
Erano spesso presenti: lo
storico della letteratura polacca, Stanislao Pigon, antico professore di
filologia dello studente Wojtyla; il fisico di fama mondiale Enrico
Niewodniczanski; l'ematologo prof. Julian Aleksandrowicz; il professor Antoni
Kepinski; lo storico Enrico Wereszycki; lo storico del diritto Adamo Vetulani;
l'economista Eduardo Lipinski; il filosofo Stefano Swiezawski, e ancora
Kotlarcyk, il giornalista Turowicz, molti scrittori...
Spesso il
Metropolita di Cracovia partecipava ai convegni scientifici internazionali; a
volte invece, nell'impossibilità di essere presente, per mancanza di
tempo, inviava solo delle relazioni, come, ad esempio, per il Colloquio
Internazionale sulla Fenomenologia, organizzato nel 1975 dalla
Société Internationale pour l'Étude de Husserl et de la
Phénoménologie.
Come studioso il futuro papa è stato
onorato da diverse università, come quella di Gutenberg a Magonza, dove
nel 1977 ricevette il titolo di dottore Honoris Causa. Nel viaggio era
accompagnato dal Rev. Rettore Krapiec, di Lublino, e da Mons. Franciszeck
Macharski, allora rettore del Seminario Teologico Metropolitano di Cracovia ed
attualmente, come è noto, Cardinale e Arcivescovo, successore di Wojtyla
a Cracovia.
Nel documento di motivazione delle autorità
dell'Università di Magonza leggiamo: «Ha interpretato
fenomenologicamente, ed ha sviluppato, il concetto del personalismo cristiano,
indicando nuove vie metodologiche all'etica cristiana, indicando anche
l'intangibile dignità della persona umana, attraverso un'originale prova
antropologica, filosofica e teologica, facendo ciò in modo convincente ed
apportando così al moderno dibattito teologico-morale delle norme e dei
valori fondamentali, un contributo con cui gli altri devono
confrontarsi».
LA PROFEZIA DEL PROFESSORE
Il congresso scientifico internazionale che si
svolse nell'aprile del 1974 in occasione del settecentesimo anniversario della
morte di San Tommaso d'Aquino fu definito (scherzosamente) «il congresso
del Cardinale Wojtyla». Gli incontri si svolsero a Roma, presso l'Angelicum
e a Napoli. Il Cardinale fu l'unico porporato membro del Comitato d'onore del
Congresso e tenne, alla presenza di mille e cinquecento partecipanti, una
relazione intitolata: «La struttura personale dell'autodecisione». A
Fossanova, dove morì San Tommaso, pronunciò un'omelia.
La
personalità del Metropolita, la sua cultura religiosa, l'erudizione e la
disinvoltura con la quale si muoveva in campo scientifico, la sua immediatezza,
il tatto e la spigliata conversazione, affascinarono tutti. E fu proprio allora
che il professor Swiezawski, presente al congresso, spinto forse da una visione
profetica, amichevolmente gli disse: «Sarai Papa».
Udendo questo
il Metropolita, come ricorda il professore, «mi guardò negli occhi
con molta serietà, senza rispondere».
Eppure il cardinale
ricorderà queste parole: «Così è, caro Stefano»,
gli scrisse, ormai divenuto Giovanni Paolo II, «mi tornano alla mente le
tue parole, pronunciate a Fossanova durante il congresso in onore di San
Tommaso. Deus mirabilis!»
IL VIAGGIO NELL'ALTRO EMISFERO
Wojtyla ha sempre viaggiato molto e per tutti i
continenti.
Il 28 agosto 1969 partì per il Canadà, invitato
dall'Episcopato canadese e dal Congresso per l'immigrazione polacca che
celebrava il venticinquesimo della sua istituzione.
Tre settimane dopo
partiva per gli Stati Uniti, dove si trattenne due settimane, invitato, questa
volta, dai polacchi di Pittsburg, appoggiati nell'iniziativa dal Cardinale John
Wright, già Vescovo ordinario di questa città e, nell'anno della
visita del Card. Wojtyla, prefetto della Congregazione per il Clero e residente
a Roma: quello stesso Cardinale Wright che sarebbe arrivato al Conclave di
ottobre quasi direttamente dalla sala operatoria, e vi avrebbe partecipato pur
nell'impossibilità di muoversi.
Il viaggio nell'altro emisfero fu
intrapreso insieme al Cardinale Sczepan Wesoly, al reverendo Francesco
Macharski, allora professore in seminario, e con il cappellano don Stanislao
Dziwisz.
Durato quarantaquattro giorni, si snodava, specialmente negli
Stati Uniti, attraverso le città la forte emigrazione polacca. In
Canadà il Cardinale Wojtyla passò in veste ufficiale, come
rappresentante dell'Episcopato polacco; negli Stati Uniti invece, il viaggio
ebbe carattere privato. Ma in entrambi i casi, la rapidità degli
spostamenti rifletteva lo stile americano: dalla macchina all'elicottero,
dall'elicottero all'aereo e così via, percorrendo migliaia di chilometri
e partecipando a numerosissime celebrazioni religiose, a incontri nei centri di
emigrazione e, infine, a ricevimenti durante i quali i sindaci consegnavano al
Metropolita, secondo l'uso americano, le chiavi simboliche delle loro
città.
Toronto, Montreal, Winnipeg, Edmonton, ecco le tappe
principali di questo viaggio pastorale. Il Metropolita fu ricevuto dal Cardinale
Maurice Roy, Arcivescovo di Québec e presidente del Consiglio dei laici,
al quale partecipava, come abbiamo scritto, «il venuto dalla Polonia».
Numerosi furono gli incontri con i rappresentanti della Chiesa canadese, ma
quelli che lasciarono un'impronta di indicibile entusiasmo, furono gli incontri
con i Polacchi, alcuni solo d'origine, non avendo mai messo piede sulla terra
degli avi. Durante la permanenza a Montreal cadeva l'anniversario dell'inizio
della seconda guerra mondiale e il Cardinale, nel corso di un'omelia,
sottolineò l'importanza della lingua e della cultura polacca quali
elementi essenziali per mantenere i legami con la patria. A Toronto, per la
stessa occasione, parlò dei legami tra la cultura polacca e il
cristianesimo.
«Questa verità sulla nazione, disse allora, mi
viene confermata, in modo particolare, durante questa visita all'emigrazione
polacca in Canadà...
La Chiesa, nei nostri tempi, vuole continuare
ad essere, come è stata sempre, al servizio dell'identità polacca
e vuole servire alla formazione della nostra cultura. Essa si esprime anche
attraverso l'esperienza religiosa. E l'esperienza religiosa è specifica,
irripetibile. In essa tocchiamo lo strato più intimo dell'anima umana e
dell'anima polacca. È significativo parimenti che i primi polacchi venuti in
questa terra furono i Kaszubi. Appena arrivati, costruirono la chiesa nella
città chiamata Wilno, e tutta la regione fu da essi denominata Pomerania
Kaszubska.
Il loro gesto venne qui in seguito considerato come una protesta
contro la politica detta 'Kulturkampf'; si stabilirono qui, in terra straniera,
per difendere i valori più profondi del proprio animo ed esaltare la
propria cultura».
Da Cracovia erano state portate le reliquie di San
Stanislao Vescovo, di San Giacinto e di San Giovanni Kanty, e vennero offerte
alle parrocchie polacche. Ad Edmonton, la capitale del grano e del petrolio, nel
passato prima meta dell'emigrazione polacca, avvenne un incontro inconsueto: da
Pisilberry, centro lontano seicento chilometri, vennero dei contadini per
domandare un prete polacco per la loro parrocchia.
E non è ancora
tutto: ad Edmonton fu inaugurato un monumento dedicato ai pionieri polacchi, per
festeggiare in questo modo sia il millenario del battesimo della Polonia, sia il
centenario del Canadà.
Vi fu un'escursione sulle Montagne Rocciose;
tutti, nell'occasione portarono i bianchi cappelli da cowboys.
E poi, gli
Stati Uniti.
A Buffalo, vicino al famoso Ponte della Pace, sul Niagara, il
Metropolita fu accolto con fiori bianchi e rossi, con il pane e il sale. In
questa città, abitata da quasi trecentomila polacchi, una delle
parrocchie, quella di San Stanislao Vescovo, ha innalzato, all'interno della
chiesa, una lapide-ricordo in onore dei caduti durante l'Insurrezione di
Varsavia (1944). Il futuro papa la benedisse nel corso di una cerimonia solenne,
dicendo che essa avrebbe qui ricordato quanti 25 anni prima lanciandosi nella
lotta per la liberazione della patria proprio nella capitale Varsavia avevano
immolato sull'altare di quella patria, la vita e le loro migliori speranze. Il
viaggio sarebbe stato pieno di momenti patriottici come questo.
Cleveland,
Hartford, Pittsburg, Chicago, Detroit, Boston, Doylestown, New York.
Una
gradita sorpresa stupì piacevolmente gli ospiti polacchi: il ricevimento
nella Czestochowa di Doylestown, una sede moderna e grandiosa tenuta dai
Paolini. Lì avvenne l'incontro con Jan Król, Cardinale di
Filadelfia, nella cui diocesi si trova questa Czestochowa, segno del ricordo del
Vecchio Paese e di venerazione per la Regina Polonorum.
Il Cardinale
Król, primo americano di origine polacca insignito di tale titolo nella
Chiesa di oltre oceano, ricevette il Cardinale Metropolita con un particolare
calore. Dopo sette anni lo inviterà di nuovo ad un Congresso Eucaristico,
tenuto a Filadelfia.
Ma prima di partecipare a questo, il nostro
Metropolita interverrà ad un altro Congresso Eucaristico, quello di
Melbourne.
Il Cardinale Wojtyla in visita in Australia
MELBOURNE
Il Congresso durò dal 18 al 25 febbraio del
; ma il Cardinale Wojtyla preferì partire già agli inizi di
febbraio. Lo accompagnavano il Vescovo Wesoly e il Cappellano Dziwisz. Lungo il
viaggio fecero tappa a Manila, nelle Filippine, nel ricordo del Principe
Metropolita di Cracovia Sapieha, il quale trent'anni prima aveva partecipato qui
al Congresso Eucaristico: il suo viaggio per nave era durato allora mezzo
anno!
In Nuova Guinea, la tappa successiva, i nostri viaggiatori furono
ricevuti dai missionari polacchi della Congregazione dei Verbiti; non
mancò un saluto alle Suore polacche della Congregazione delle Serve dello
Spirito Santo. I tre sacerdoti visitarono anche i centri dei Papua, donando ai
bimbi le immagini della Madonna di Czestochowa.
E dopo... l'Australia:
Brisbane, Sydney, Canberra, Melbourne, Adelaide, Perth. Lunghissimo itinerario
che attraversò quasi tutto il continente, toccando città famose e
oasi sperdute dell'emigrazione polacca.
Questo viaggio pastorale assumeva
un aspetto incredibile quando si vedevano, sotto il cielo tropicale, bambini
vestiti con i costumi popolari di Cracovia, e quando, fra il brusio delle lingue
diverse, irrompeva il canto nostalgico dei vecchi polacchi; li consolava il
Metropolita con parole simili a quelle pronunciate a Sydney:
«Son qui
per sentirmi tutt'uno con l'emigrazione. La vostra strada è la strada
della nostra storia: una strada comune.
Il popolo scrive questa storia nel
proprio paese, ma anche, a volte, fuori di esso. Dalle spartizioni della Polonia
è cominciata, in fondo, l'ondata dell'emigrazione. Kosciuszko e Pulaski
hanno reso celebre il nome della nostra Patria comune, combattendo per la nostra
e vostra libertà, e a noi lasciano questa missione, che tanto è
costata e che costa ancora.
La paghiamo con l'emigrazione, con la guerra,
con l'esilio, con i campi di concentramento, portando là, dove il destino
ci spinge, il nostro primo amore e, per questo, non sbiadito dal tempo: l'amore
per la Polonia».
A Sydney una vecchietta centenaria, raccontò
che era stata in Polonia per l'ultima volta settant'anni prima! A Canberra i
combattenti della seconda guerra mondiale consegnarono al Cardinale un'immagine
della Madonna, fatta con le schegge metalliche delle pallottole tolte dalle loro
ferite, con la preghiera di portarla nella nuova chiesa di Nowa Huta. Preghiera
presto esaudita.
Per rendere visita a connazionali ivi residenti i nostri
pastori fecero tappa anche in Tasmania e in Nuova Zelanda.
A Hobart, la
più grande città della Tasmania, accanto agli ex-soldati della
famosa Brigata dei Carpazi, fecero bella mostra di sé i piccoli scouts
polacchi.
A Wellington, capitale della Nuova Zelanda, gli ospiti poterono
ammirare un tipico presepio polacco, e, cosa forse più importante, il
Primo Ministro consegnò al Metropolita un pastorale di fattura
artigianale. Il Congresso Eucaristico di Melbourne si svolse sotto il segno
dell'ecumenismo, della problematica missionaria e della pastorale familiare. Gli
occhi di tutti si rivolgevano verso una strana suora, minuta, secca, con il
volto solcato da rughe: Madre Teresa di Calcutta, con la quale il futuro papa si
incontrerà anche durante il congresso di Filadelfia.
FILADELFIA
Svoltosi dal 1° all'8 agosto 1976 questo
Congresso vide il Cardinale Wojtyla a capo di una delegazione polacca composta
da diciotto persone, la più numerosa tra tutte le delegazioni episcopali
straniere. Tema del Congresso: «L'Eucarestia e le 'fami' della Famiglia
Umana». Una giornata di studio, poi, questa grande Assemblea religiosa fu
dedicata alla «Fame di libertà e di giustizia». Il Metropolita
di Cracovia presiedette, allora, la «S. Messa Polacca» concelebrata
nello stadio dei Reduci a Filadelfia; all'omelia parlò a quarantamila
persone. Dopo la Messa consegnò, in modo solenne, al Cardinale
Król, organizzatore del congresso, un'urna contenente terra polacca
raccolta a Warka, località non lontana da Varsavia, dove nacque Casimiro
Pulaski, soldato iscrittosi eroicamente nelle pagine della storia
americana.
Con l'occasione i Vescovi polacchi rimasero un mese in America,
visitando, dopo il Congresso, molti centri di emigrazione.
Ad Orchard Lake,
«il più bel seminario polacco del mondo»u organizzata una
conferenza di tre giorni, dedicata ai problemi della pastorale e della
collaborazione dell'emigrazione polacca con la Chiesa in Polonia. Proprio qui il
Metropolita di Cracovia consegnò nelle mani del Rettore del seminario,
Rev. Walter Ziemba, un'urna contenente la terra di Auschwitz e di Raclawice,
cosa che fece anche il Vescovo Lech Kaczmarek, che consegnò un'urna con
la terra di Westerplatte, mentre il Vescovo Kraszewski consegnava a sua volta
un'urna con la terra del cimitero «na Kamionku» di Varsavia.
Il
Metropolita di Cracovia svolse inoltre, in quel caldo agosto americano, opera di
docente invitato dall'Università di Harward, vi tenne una Conferenza sul
tema: «Alienazione e partecipazione». All'Università cattolica
di Washington parlò sui «Problemi dell'autoteleologia
dell'uomo», e all'Università di Stevens Point sulla «Situazione
della Chiesa cattolica in Polonia».
Fu allora che il Cardinale
toccò le rive del Pacifico a Los Angeles e a San Francisco. Un grande
incontro con i rappresentanti delle organizzazioni polacche concluse, a New
York, il soggiorno negli Stati Uniti; incontro organizzato dalla Fondazione
Kosciuszko e dal suo preside prof. Eugenio Kusielewicz, sempre aperto a chiunque
arrivasse dalla Polonia.
Non possiamo non ricordare ancora due viaggi
all'estero del Cardinale.
IL PELLEGRINAGGIO DEI SACERDOTI IN «TUTE RIGATE»
Il primo si svolse in occasione del Giubileo d'oro
del sacerdozio di Paolo VI e nel venticinquesimo anno della liberazione dei
campi di concentramento hitleriani; nel maggio del 1970, il Metropolita giunse a
Roma con un gruppo di duecento sacerdoti, ex-prigionieri dei campi. Durante il
viaggio il gruppo fece sosta a Gusen, Mauthausen e Dachau. A Monaco, nelle cui
vicinanze si trova Dachau, il più grande campo di sterminio di sacerdoti
portati là da tutta Europa (vi sono morti ottocento preti polacchi), i
pellegrini vennero accolti dal Cardinale Julius Doepfner. Ma si avvertiva
nell'aria una certa freddezza da parte dei tedeschi nei confronti di questi
sacerdoti vestiti con la tuta a righe dei prigionieri; furono infatti quasi
assenti all'incontro iniziale, per cui un ex-prigioniero, il Vescovo Casimiro
Majdanski, pronunciò con rammarico queste parole: «Evidentemente
preferiscono non ricordare».
Su che cosa poteva riflettere allora il
Metropolita di Cracovia? Non aveva conosciuto personalmente i campi di
sterminio, ma sapeva bene che cosa era la guerra, che cosa erano l'occupazione,
le persecuzioni, l'inferno dei campi. Il fumo che usciva dai forni crematori di
Auschwitz, così vicino a Cracovia, quasi palpabile nella sua diabolica
densità, aveva occupato più d'una volta i suoi pensieri e ne
colpiva la sensibilità morale, vero disonore di duemila anni di
civiltà.
«La parola Oswiecim, disse il futuro papa, in una
trasmissione della Radio Vaticana, durante il Concilio Vaticano II, che gli
stranieri conoscono come Auschwitz, contiene in sé non solo l'espressione
della morte fisica di milioni di persone indifese, ma anche l'espressione della
morte morale. È un luogo, questo, uno dei tanti luoghi nella storia, dove
l'umanità ha toccato il fondo della sua bassezza. Luogo dove l'uomo ha
mostrato all'umanità il massimo del disprezzo e della bestialità
nei confronti degli altri uomini; e questo avvenne perché cedette alla
pressione bruta di un sistema, nel quale, fin dall'inizio, l'uomo e i suoi
innegabili diritti non contarono più».
A Dachau i sacerdoti
pellegrini percorsero la «Via Crucis».
A Roma furono accolti da
Papa Paolo VI durante un'udienza particolare e ascoltarono, nella Basilica di
San Pietro, l'omelia del Metropolita di Cracovia, dettata dalla circostanza;
presero successivamente parte ad una Messa celebrata dal Santo Padre, in
occasione della solennità del Corpus Domini, in una Chiesa di
periferia.
Durante l'udienza i sacerdoti offrirono al Santo Padre un dono
eccezionale: un calice in miniatura realizzato nel campo di Auschwitz e, sempre
una miniatura, il «Messale di Oswiecim», rilegato in lignite e carbon
fossile rinvenibile a Konin in Polonia. A loro volta ricevettero dal Papa i
messali postconciliari ed ebbero il privilegio di impartire la benedizione
apostolica.
La città eterna risuonò in quei giorni dei loro
numerosi canti, come era accaduto anche a Monte Cassino, dove, nonostante una
pioggia torrenziale, si svolse una Messa concelebrata, a ricordo dei soldati qui
sepolti che sembravano ancora chiedere il perché del loro
sacrificio.
Wojtyla celebra la messa a Brooklyn
LA VISITA NELLA GERMANIA FEDERALE
Il secondo viaggio di cui vogliamo qui accennare
è quello compiuto tra il 20 e il 25 settembre del 1978. Un mese prima
della sua elevazione alla Sede Apostolica, il Metropolita di Cracovia insieme al
Primate di Polonia Cardinale Stefano Wyszynski, a Mons. Stroba, oggi Arcivescovo
di Poznan, a Mons. Ladislao Rubin, oggi Cardinale, con il Sac. Orszulik fece
parte della delegazione ufficiale dell'Episcopato polacco che, su invito della
locale Conferenza Episcopale, si recò nella Repubblica Federale di
Germania, per ricambiarne la visita.
«Gli scopi di questa missione,
osservò il Primate alla vigilia della partenza, non sono politici, ma
esclusivamente religiosi, quanto mai religiosi. Andiamo alla Conferenza
dell'Episcopato tedesco, a Fulda, presso il sarcofago di San Bonifacio,
l'apostolo della Germania, in nome della Madre di Dio, partendo dal sarcofago di
S. Adalberto, dalla Capitale che ha conosciuto i tormenti più atroci, nei
momenti difficili dell'esperienza del nostro popolo. Insieme cercheremo di
riflettere come salvare il cristianesimo in Europa, che in questi tempi si va
sempre più allontanando da Dio. Che cosa fare perché i paesi
d'Europa si convertano di nuovo a Cristo attraverso la Madre di Dio. Di questa
Europa che fu il centro missionario dell'attività apostolica della
Chiesa».
La delegazione polacca si recò così a Fulda, ed
in seguito a Colonia, a Neviges, dove si trova un santuario mariano, a Monaco,
Dachau, Magonza. Il Cardinale Doepfner non viveva ormai più, ma gli
ospiti polacchi ebbero modo di ricordarlo con venerazione.
Furono
calorosamente accolti dal Cardinale Joseph Hoeffner, Arcivescovo di Colonia e
Presidente della Conferenza Episcopale tedesca. Dappertutto suscitarono un
grande interesse ed i loro discorsi apparvero sulla stampa mondiale; erano
venuti per riflettere in comune sul futuro del Cristianesimo in Europa, sulla
collaborazione pacifica ed amichevole nella famiglia umana, ricordando il legame
che una volta univa il Principe Boleslao Chrobry e l'imperatore Ottone III, non
tacendo neppure sulle ingiustizie inflitteci durante i secoli. Non vennero
ignorate le dolorose pagine della seconda guerra mondiale. A Dachau il Prjmate
celebrò la Santa Messa pronunciando un'omelia. Sotto il Muro del Mausoleo
furono deposte corone; alla Celebrazione partecipò anche l'ambasciatore
polacco in Germania, Sig. Giovanni Chylinski.
Parlando nella Cattedrale di
Monaco, il Metropolita di Cracovia ricordò i nomi del Beato Massimiliano
Kolbe e della tedesca carmelitana scalza suor Teresa Benedicta della Croce.
Tutti conoscono la vita e il sacrificio del fondatore di Niepokalanów. Il
-X-71 giorno in cui fu beatificato padre Kolbe, fu una festa per tutta la
Chiesa e un grande avvenimento per tutta l'umanità, per tutti coloro che
riescono ad apprezzare un gesto eroico, un sacrificio che si esprime nel modo
più generoso ed umano. Il Metropolita fece ogni sforzo possibile,
perché il mondo ricordasse sempre quel francescano polacco che ebbe il
coraggio di morire al posto di un altro uomo.
Ma chi era Suor Teresa
Benedicta, menzionata con uguale stima dal Cardinale? Doveva essergli in qualche
modo vicina. Non perché arrivata ad Auschwitz fu portata direttamente dai
binari ai forni crematori; il volto di Suor Teresa Benedicta sembrava guardare
ancora ai volumi che raccolgono le formule e le riflessioni di fenomenologia.
Questa carmelitana proveniente da Wroclaw, prima di bussare alla porta del
Convento, cercava la verità nei libri, nella scienza, era infatti
collaboratrice del grande Husserl e collega dell'illustre Roman Ingarden. Molto
la divideva ancora da Cristo: La nascita, gli slanci di una giovinezza piena di
ambizioni, troppo piena di pensieri mondani, una sorta di agnosticismo. Era di
origine ebrea, anche se solo anagraficamente. Quando si accese la fiamma della
metamorfosi, Edyta Stein (suo vero nome) ricevette il battesimo e divenne suora.
Sul suo scrittoio di studiosa, in convento, erano in evidenza i volumi di San
Tommaso e del Dottore della Notte. L'intellettuale, nella clausura, fu prima di
tutto una persona piena d'umiltà, bontà e sempre in preghiera. Fu
arrestata perché ebrea. Citiamo il «Canto dell'Anima» di San
Giovanni della Croce, poesia su cui la Suora aveva scritto un commento molto
bello:
Pues ya si en el ejido
De hoy más no fuere vista
ni hallalada,
Diréis que me he perdido,
que andando
enamorada,
Me hice perdidiza, y fui ganada. (13)
(13)
Poiché nel campo aperto / da oggi non fui più veduta né
trovata / direte che mi sono perduta, / che vagando innamorata / mi volli
perdere e fui guadagnata (Cantico Spirituale A-20, B-29)
IL PASTORE DELL'ARCIDIOCESI
Rimanevano ancora tanti altri
impegni.
Bisognava trovare il tempo per adempiere a tutti gli altri
incarichi all'interno dell'Episcopato polacco. Il Cardinale Wojtyla era infatti
vicepresidente della Conferenza, membro del suo Consiglio Generale, presidente
della Commissione per i problemi dell'Educazione Cattolica e di quella per i
problemi dell'Apostolato dei laici, membro della Commissione per i problemi
della Pastorale generale e di quella per i problemi delle Istituzioni Polacche
in Roma.
Eppure principalmente c'era l'Arcidiocesi, quell'Arcidiocesi in
cui aveva riposto il suo amore e a cui dedicava la normale fatica pastorale. Ma
davvero era fatica normale?
Durante i quindici anni del suo governo
pastorale l'Arcidiocesi di Cracovia ha vissuto molti momenti stupendi -
importanti o meno - sempre segnati dalla fervida sollecitudine del
Metropolita.
Ad esempio nel solo 1973, citiamo qui un anno non di
particolare rilevanza, si sono avuti i seguenti avvenimenti: il
settecentocinquantesimo anniversario della morte del beato Vincenzo Kablubek; il
cinquecentesimo anniversario della morte di S. Giovanni Kanty; una sessione
pubblica della Conferenza Episcopale; il centenario della morte del Servo di Dio
sac. Gerolamo Kajsiewicz, della Congregazione dei Redentoristi; una sessione
scientifica particolare in cui fu reso omaggio a Nicolò Copernico nel
cinquecentenario della sua nascita; e ancora la celebrazione di un rito funebre,
tenuto secondo una tradizione secolare, per la sistemazione in Cripta delle
ceneri, scoperte nel corso di scavi archeologici eseguiti a Wawel, del re
Casimiro Jagellone e della sua consorte Elisabetta; un simposio particolare i
cui partecipanti, provenienti dall'intera nazione, discussero sui problemi
legati all'interpretazione dei dogmi; la riunione della seconda sessione
plenaria del Sinodo dell'Arcidiocesi; il pellegrinaggio di seicento sacerdoti al
santuario di Kalwarla, in preparazione all'anno Santo che si avvicinava (1975),
come pure i vari pellegrinaggi di gruppi particolari: uomini e ragazzi, donne e
ragazze.
Molti ospiti furono parimenti ricevuti calorosamente a Cracovia;
tra essi ricordiamo: i Cardinali Doepfner, Garrone, Raimondi, Samorè e
Tabera; il Metropolita, il quale, sebbene, come sappiamo, fosse in febbraio in
Australia e Nuova Zelanda e in maggio in Belgio, non di meno, non mancò
di essere presente in tutte queste occasioni...
Pastore, Pastore
instancabile...
Conosceva la sua chiesa di Cracovia e vigilava su di essa.
Sapeva che la realizzazione del Concilio Vaticano II dipendeva, in gran parte,
dai sacerdoti, dalla loro preparazione e formazione spirituale e, come
presidente della Commissione Episcopale per l'educazione cattolica, dedicava
sempre molta attenzione ai seminari ed agli studi teologici in Polonia. Si
interessava personalmente di ogni singolo chierico, nella sua qualità di
pastore dell'Arcidiocesi e di Gran Cancelliere della Facoltà Pontificia
di Teologia di Cracovia. Era commovente il ricordo che conservava dei neo
sacerdoti; ai quali in seguito scriveva, quasi ogni anno, lettere pastorali,
legate a qualche occasione. Oltre ai chierici e ai giovani sacerdoti, si
dedicava all'intera comunità sacerdotale, conosciuta e compresa da lui e
mai tenuta a distanza.
Nel palazzo arcivescovile presto si dovettero
assumere nuovi atteggiamenti, chiamiamoli pure popolari. Il Metropolita invitava
spesso a pranzo i confratelli venuti a Cracovia per faccende burocratiche,
facendoli sedere accanto ai più illustri ospiti, non di rado venuti
dall'estero, i quali non mancavano mai.
Promosse anche l'elezione - dopo il
Vaticano II - del Consiglio Sacerdotale, da parte di tutti i sacerdoti
dell'Arcidiocesi: su trenta persone solo sei erano nominate dall'alto.
Il
Consiglio prese vita con il decreto del 14 dicembre 1968, cominciando a
governare, insieme con il suo capo, l'arcidiocesi, e il Metropolita partecipava
ad ogni riunione del Consiglio stesso: questa doveva essere, ed è stata,
l'espressione concreta della collegialità.
IN AIUTO DELLE FAMIGLIE
In quei giorni la Curia guadagnò nuovi
spazi di impegno ecclesiastico: furono create le sezioni per la Pastorale
Caritativa, per la Pastorale delle famiglie, ed una speciale sezione per la
Pastorale dei giovani.
I problemi della famiglia, la pastorale famigliare,
costituirono sempre una preoccupazione di rilievo per il Metropolita.
Per
sua iniziativa nacque l'Istituto della Famiglia. In ogni decanato vennero
istituiti i consultori familiari, organizzati aiuti per le famiglie numerose,
svolti corsi per i giovani Sposi.
L'otto maggio 1974, anno che precedette
quello del Giubileo, il Metropolita annunciò che si era pronti a dare una
mano a tutte le famiglie e, con la più assoluta discrezione, a tutte le
ragazze madri che decidevano di mantenere la gravidanza, anche in mancanza di
condizioni favorevoli.
I fini di questa decisione tanto difficile a
realizzarsi, come pure di precedenti iniziative, erano duplici. Si trattava di
dare aiuto a tutte le famiglie bisognose, ma si trattava anche di incoraggiare
moralmente le donne, specie se sole, che si trovavano davanti al dramma della
maternità indesiderata, le quali avevano bisogno di conforto per evitare
una decisione di aborto.
«La Chiesa sempre difende
l'intoccabilità della vita - scriveva Wojtyla nella comunicazione che ne
diede - difende ogni bambino concepito. La vita è un dono di Dio e
dobbiamo circondare i bambini di amorosa protezione. Conosciamo però i
casi in cui per certe famiglie o per donne sole, l'uomo concepito diventa causa
di molteplici difficoltà.
Perciò andiamo incontro a coloro
che ne hanno bisogno, per non permettere la tragedia del genocidio. Le
difficoltà di natura medico-morale non devono costringere la madre ad
uccidere la vita concepita»...
Ricordiamo le parole di Cristo: "Chi
accoglierà un bambino come questo nel mio nome, accoglierà
me".
Per tradurre in pratica queste promesse, il Metropolita si fece
iniziatore del centro della «protezione della madre».
Così
occupandosi dei problemi della famiglia, si proponeva di presentare tutte le
esperienze di Cracovia in questo campo in un volume sulla teologia della
famiglia; ma non ne ebbe il tempo prima del Conclave di ottobre...
LE VISITE PASTORALI
Si recava spesso in visita pastorale alle
parrocchie. Alcune volte prolungava la visita anche per qualche settimana, altre
volte invece, arrivava all'improvviso e solo per poco tempo.
Durante le
visite, nelle quali era accompagnato, specie in questi ultimi anni, da Mons.
Francesco Walancik, riusciva a pronunciare l'omelia in quasi tutte le
celebrazioni domenicali; ed ancora aveva la forza di far visita ai
malati.
Interessato com'era alla problematica familiare, introdusse un rito
divenuto ormai consuetudine: dopo ogni S. Messa con una catechesi, rivolta
specialmente agli sposi, benediceva a parte ogni coppia.
Nei contatti con i
sacerdoti evitava il tono di un superiore, o di chi volesse impartire una
lezione; anzi, per il suo tono affabile, era da molti esortato ad essere
più duro; a questa osservazione una volta così
rispose:
«Più tempo passa da quando sono Vescovo, più mi
convinco che sono piuttosto 'sotto' che 'sopra'».
La gente lo invitava
in ogni parte della Diocesi; una volta davanti al Palazzo Arcivescovi le si
presentò una delegazione di seicento persone, provenienti dalla regione
dei Carpazi inferiori; recavano l'invito, per il Metropolita, di visitare le
loro parti.
Si sentiva, ed era, uno di loro.
Il prelato a contatto con
il mondo intero, l'erudito ammirato durante i congressi, l'uomo che parlava con
scioltezza molte lingue, si trasformava facilmente in una persona semplice, in
un parroco che sapeva conquistare il cuore dei suoi parrocchiani: riconoscevano
il timbro baritonale della sua voce vibrante, ne conoscevano anche il sorriso
gioviale, il senso spiccato dell'umorismo, l'indole bonaria.
Arrivava con
una grossa Opel nera (sebbene spesso preferisse una Volga, in quanto meno
vistosa); era ricevuto sotto archi trionfali dalle bande folcloristiche a
cavallo, ma già dopo qualche minuto riusciva a creare un'atmosfera
familiare, sapendo scegliere il linguaggio adatto per le persone che gli stavano
davanti, appartenenti al colorito mosaico di provincia, solo apparentemente
così semplice.
Ovviamente questi rapporti non avvenivano a scapito
della sua amata città di Cracovia; era spesso ospite nelle sue
parrocchie, nei vari conventi e nelle congregazioni.
Gli rincresceva che la
Cattedrale di Wawel contenesse poche persone; lo spazio ristretto si può
spiegare ricordando la consuetudine, risalente a qualche secolo fa, che voleva
una Cattedrale come posto riservato al re e alla corte; la chiesa di Santa
Maria, invece, collocata al centro della città, era riservata alla
borghesia cittadina.
Cercò, per ovviare l'inconveniente di Wawel, di
mutare almeno il concetto di privilegio, ed evitare così alla Cattedrale
l'aspetto di un museo, per quanto anche questo potesse essere segno di
privilegio.
Prese la consuetudine di invitarvi, in occasione del Natale,
della Pasqua, della Pentecoste, della festa di Cristo Re, i fedeli dalle diverse
parrocchie, rivolgendo a tutti, per l'Epifania, gli auguri di buon Anno nuovo.
Infine dovette preoccuparsi di come risolvere il problema
dell'«invasione» dei fedeli e dei turisti, oltre che per la già
citata esiguità di spazio, anche per la dignitosa atmosfera che la
Cattedrale doveva sempre mantenere.
Per sua iniziativa si creò
allora un gruppo di chierici che facevano da guide, insegnando, da una parte, il
comportamento sincero e religioso, ed imparando, essi stessi, dall'altra, come
instaurare contatti con le persone che giungevano lì da ogni parte del
mondo.
UNA GIORNATA DEL METROPOLITA
Amava intrattenersi personalmente con ognuno e su
ogni tema. È noto che, quando stava in Cracovia, era solito alzarsi alle sei, e
lavorare fino alle undici nel suo studio; dopo tale orario, il portone del
palazzo arcivescovile veniva sempre aperto per ogni persona che volesse da lui
udienza.
Accadeva spesso che la gente, davanti a lui si sentisse
intimidita; questo non a causa di una ostentata superiorità o freddezza,
che non si confacevano alla sua natura vivace e franca, ma per il modo con cui
era solito ascoltare; sfogliava carte sparse sulla scrivania, dando
l'impressione di non afferrare quello che gli veniva detto.
Al
contrario!
Seguiva tutto scrupolosamente, anche se in apparenza sembrava
distratto. La sua memoria annotava i minimi particolari, cosa che sorprendeva
piacevolmente l'interlocutore, allorché in occasione di un successivo
incontro, anche lontano nel tempo, questi particolari erano minuziosamente
citati dal Metropolita.
In lui suscitavano interesse cose spesso giudicate
futili, o che sembravano non appartenere al suo mondo.
Distribuiva il
proprio tempo con economia, sfruttando ogni minuto. Spesso sbrigava faccende
d'ufficio durante un viaggio in macchina; a questo scopo, fu installato sulle
sue due macchine uno scrittoio munito di lampadina, così poteva lavorare,
scrivere o leggere anche nelle ore serali.
Vogliamo riportare qui un
ricordo di Mons. Casimiro Majdanski, quando era ancora rettore dell'Ateneo
Sacerdotale e si intratteneva con i collaboratori in riunioni di carattere
teologico, pastorale e redazionale nell'abbazia di Tyniec (vicino a
Cracovia):
«Si sapeva bene che l'Arcivescovo di Cracovia superava
facilmente distanze anche lunghe e che sempre lavorava durante il viaggio. Era
questo un modus vivendi che in quei giorni lontani aveva proporzioni modeste, ma
già annunciava il futuro sviluppo. Una volta, ad esempio, giunse a Tyniec
quando ormai doveva ripartire alla volta di Varsavia: la decisione fu fulminea,
tutto il corpo di redazione si trasferì dall'ufficio sulla sua grande
auto, che divenne così una sala di discussione. Arrivati però
vicino a Radom, cittadina posta a metà del percorso per Varsavia,
essendoci accorti che si procedeva troppo lentamente e che avremmo perduto il
treno per il ritorno (da Varsavia a Cracovia), ecco un'altra decisione
improvvisa: dividerci lì a Radom per avere la possibilità di
ritornare.
Ogni minuto era sfruttato e, per di più, nella massima
libertà possibile».
Il Metropolita voleva molto bene ai
giovani.
Per praticare lo sci o il canottaggio partiva regolarmente con
gruppi di giovani, in inverno cercava di trascorrere due settimane sui campi da
sci, durante le vacanze dedicava altro tempo alle passeggiate in montagna e
lungo i laghi, conducendo vita «poco cardinalizia». (L'ultima discesa
sciistica da Kasprowy l'ha compiuta nel marzo 1978; la notizia della morte di
Paolo VI lo raggiunse mentre era sotto una tenda...).
Ma questo non era
l'unico modo per avvicinare i giovani; durante gli incontri pregava insieme con
gli altri e prendeva ardentemente parte alle conversazioni. Ogni anno dedicava
ai giovani opuscoli o manuali che venivano distribuiti nel giorno di S.
Stanislao Kostka, loro patrono. Era solito dire: «Bisogna santificare il
luogo del lavoro, per santificare l'uomo»; ed ancora: «Che il libro
benedetto vi ricordi la necessità di unire il lavoro alla preghiera, di
iniziare il lavoro dalla preghiera per trasfigurarlo in essa». Molte volte
si intratteneva con i giovani fino a notte fonda, quando ormai «il luogo
del lavoro» era stato santificato.
Spesso i discorsi erano allietati
da canti, in specie quelli di montagna accompagnati con la chitarra.
Il 4
novembre, giorno di S. Carlo Borromeo, i giovani cantavano al loro Metropolita
canzoni composte per l'occasione.
Il giorno del suo onomastico cominciava
con la santa Messa, celebrata nella chiesa a Niepolomice, che porta il nome del
Santo. Poi c'era l'incontro con i chierici, specie da quando i seminaristi
preparavano ogni anno, a partire dal 1968, delle recite, sotto la guida del
maestro Kotlarczyk, volendo testimoniare, in questo modo singolare, la loro
riconoscenza e stima al festeggiato. Queste rappresentazioni non erano
costituite da semplici saggi letterari; un ingegnoso disegno di composizione
univa in esse testi del Vangelo con le più belle pagine della letteratura
polacca, poeti romantici e, fra altri famosi autori, sempre in rilievo erano
Wyspianski e Kasprowicz. «Gobelin biblijny - L'arazzo biblico -», la
rappresentazione del 1976, ricordava le storie della Genesi e di Giacobbe,
alternate a frammenti dell'«Acropolis», una strana opera di
Wyspiánski, la cui azione si svolge a Wawel e narra la definitiva
riconciliazione tra Giacobbe e suo fratello Esaù. Tra le mura del
seminario si udiva spesso la canzone preferita del Metropolita: «La
barca».
La giornata del 4 novembre il più delle volte finiva
con uno incontro con gli studenti. Nel palazzo di via Franciszkanska arrivavano
fiori, congratulazioni, piccoli scherzosi regali: una volta ricevette un
aereo-giocattolo per facilitare i viaggi a Roma... Cose queste che lo riempivano
di gioia. Disse un giorno: «Questa grande gioia nasce dalla convinzione
che, in un'epoca nella quale non manca la menzogna, i giovani vogliono vivere la
verità, si muovono sull'onda della verità incontro ai tempi, non
temendo i pericoli che questo incontro può celare; non temendo di
sbagliare, sostenendo che la cosa più importante è rimanere se
stessi, fedeli a se stessi e, nella loro anima, fedeli a Cristo. In tal modo
tutti i nostri incontri diventano eloquenti e significativi. Di questo vi sono
grato, devo dire che serate come queste mi danno molta gioia, per cui vi invito
a venire qui il più spesso possibile, e prendete questo invito con
assoluta serietà».
IL SEGNO DEL NUOVO MILLENNIO
La chiesa di Nowa Huta è forse la
più bella chiesa della regione di Cracovia, sicuramente è la
più moderna. Emerge, quasi come una nave alla fonda, dal grande quartiere
metallurgico, a 14 chilometri da Cracovia, e la sua croce, proprio come l'albero
di una nave, sembra salutare da lontano coloro che arrivano. Grazie al modo in
cui essa è costruita, si va infatti direttamente dal marciapiedi
all'interno, sembra voler invitare ogni passante; una volta all'interno,
colpisce la monumentale semplicità della sua navata in cemento armato,
appare quasi più rifugio che tempio, privo com'è di ornamenti; ma
che fascino e che atmosfera indicibile! Ai lati del corridoio d'accesso vi sono
immagini di Madonne: la Madonna di Auschwitz, di Majdanek, di altri lager, tutte
scolpite nel legno dallo scultore Antonio Rzasa. Questo insieme sovrasta
dall'altare un prigioniero vestito con la tuta rigata dei campi di
concentramento: il beato Massimiliano Kolbe.
La chiesa di Nowa Huta
rappresentò sempre, per il Metropolita, motivo d'orgoglio e di speranza.
Nella sua mente rimase impressa una Messa notturna di Natale, quando a Nowa Huta
non vi era ancora il tempio, ma una piccola cappella ed i fedeli, raccolti
all'aperto in quella gelida notte, cantavano le «Koledy» i canti
popolari natalizi, rischiarati dal bagliore delle fonderie. Questo fu lo
scenario consueto per molto tempo, spesso accanto ad una Croce tenuta alta dai
parrocchiani. Quando tornò, ormai Pastore Universale, a Nowa Huta,
poté, a ragione, affermare che quella Croce tanto contesa, era un segno
del nuovo millennio, punto d'incontro del Vangelo con i tempi nuovi e le nuove
condizioni. La costruzione della chiesa ebbe inizio nel 1967. Il Metropolita
scavò per primo, simbolicamente, nel terreno. Prima pietra delle
fondamenta fu, dono di Paolo VI, un frammento della tomba di San Pietro. Altro
dono del Santo Padre fu la somma di diecimila dollari, come contributo per la
costruzione.
Dieci anni dopo, il 15 maggio 1977, la chiesa venne
consacrata, sotto una pioggia torrenziale, che tuttavia non impedì a
migliaia di fedeli di accorrere per la celebrazione. Una foto ricordo
dell'occasione mostra il Metropolita di Cracovia a capo scoperto sotto la
pioggia e con il volto raggiante di gioia.
La costruzione di questa chiesa
ha richiesto molti sforzi; spesso il Metropolita trascorreva del tempo in
conversazione con gli operai, fra i quali numerosi erano i giovani volontari
venuti dall'estero, per rendere omaggio, con la loro opera, alla memoria del
grande francescano.
QUELLI CHE SONO PASSATI
Il Metropolita si preoccupava molto della
costruzione di nuove chiese ed una volta ultimate, le consacrava con grande
gioia. Battezzava i bambini, amministrava le cresime, celebrava matrimoni,
svolgeva catechesi. Si faceva particolare carico di incontrare, ogni anno, i
malati. Alla vigilia di Natale quando, secondo un'antica tradizione polacca, si
spezza l'ostia (in polacco si chiama «oplatek»), e la si divide con
gli ospiti, il Metropolita invitava persone di ogni ceto. Una cerimonia simile a
questa la si ha durante il periodo pasquale, quando tutti i cibi che saranno
consumati vengono prima benedetti (tale cerimonia si chiama
«swiecone»). Memore di tutte le figure che con la santità delle
loro opere avevano rafforzato la chiesa polacca, ne promosse i processi di
canonizzazione; ecco i nomi dei beatificati: Vincenzo Kadlubek, Bronislawa e
Salomea, la regina Jadwiga, Simone di Lipnica, padre Massimiliano Kolbe, Teresa
Ledòchowska d'Africa. Quelli in odore di santità sono: padre
Pietro Semenenko, Frate Alberto, padre Raffaele Kalinowski, suor Faustina
Kowalska, Aniela Salawa, frate Aloisio Kosiba...
Si recava personalmente
alle esequie degli amici, di confratelli vescovi, di un sacerdote di campagna
morto centenario, di un giovane parroco morto in un incidente stradale,
dell'amico Kotlarczyk, del ministro Eugenio Kwiatkowski, della samaritana Anna
Chrzanowska, del prof. Stanislao Pigon, della moglie di un amico di Wadowice, di
alcuni attori tragicamente morti in un incidente e di tanti altri.
Lo si
vedeva spesso, nelle ore mattutine, immerso nella preghiera, all'interno della
chiesa dei francescani, in cui la luce filtra attraverso le vetrate gotiche,
espressioni del genio di Wyspianski, il quale oltre che poeta fu un grande
pittore. Le vetrate che sono fra le opere d'arte più preziose della
Polonia, raffigurano il Creatore, San Francesco, la priora Salomea, e colpiscono
per la policromia dei colori. Il Metropolita amava andare spesso, sempre nelle
ore mattutine, alla chiesa delle Bernardine, in via Poselska, piccolo tempio
seminascosto dal portone del convento. Nel suo interno, caratteristico per il
color verde-oro, si conserva un quadro raffigurante San Giuseppe, ritenuto
miracoloso e per questo molto venerato. Altra particolare meta della devozione
del Metropolita era la Skalka - Piccola Roccia - una chiesa non lontana da
Wawel, dedicata a San Stanislao vescovo. Una leggenda che mai potrà
trovare conferma dice che il Santo subì qui il martirio. La Skalka
rimane, tuttavia, la testimonianza della mistica presenza del Santo Martire; in
essa i Padri Paolini custodiscono le sue reliquie ed una scheggia dell'altare
presso cui il Vescovo fu ucciso. Sul Presbiterio è appeso un quadro
raffigurante il Santo con una spada sospesa sul capo. Anche all'esterno vi sono
testimonianze che richiamano ancora alla mente di ogni generazione il dramma
lontano: una statua, delle aquile in pietra e una vasca; la leggenda narra
infatti che, essendo il Vescovo di Szczepanów, Stanislao, entrato in
conflitto con il re, Boleslao Smialay - il coraggioso l'11 aprile 1079, colpito
a morte da sicari del re, mentre celebrava la Messa, cadde presso l'altare. Ma
forse il carnefice fu lo stesso Boleslao, sovrano valoroso, ma ambizioso,
vendicativo, intemperante e forse psicopatico. I colpi furono inferti alle
spalle. Dopo un attento esame del cranio moderni periti hanno stabilito che il
Santo fu pugnalato da destra verso sinistra. Il Vescovo divenne patrono della
Polonia secondo il decreto di Giovanni XXIII. Ma che cosa rappresentò
quest'uomo per il suo Paese? E ancora, perché subì un tale
martirio?
Erano questi interrogativi motivo costante della meditazione del
Metropolita, che lo ebbe sempre particolarmente caro, nella stessa misura in cui
ebbe cari i suoi due patroni: Carlo e Giuseppe, e San Giovanni della Croce, che
lo guidò sulla via della contemplazione dell'anima, attraverso
l'immersione nella preghiera e la meditazione; la beata regina Jadwiga, il beato
Massimiliano Kolbe, il servita frate Alberto. Il Cardinale vedeva nel suo Santo
protettore un difensore dell'ordine morale e per questo motivo decise di
rendergli omaggio nel nono centenario della morte che sarebbe caduto nell'anno
. Le prime celebrazioni ebbero luogo nel 1972, anno del nono centenario
dell'assunzione del governo dell'arcidiocesi da parte del Vescovo Stanislao; una
importante decisione venne presa per la circostanza: «Durante le
celebrazioni del nono centenario di San Stanislao - scrisse il Metropolita in
una lettera pastorale - abbiamo l'intenzione di organizzare e svolgere,
nell'Arcidiocesi di Cracovia, un Sinodo che, se sarà onorato
dall'adesione dei Vescovi delle altre Diocesi, diventerà il Sinodo della
Provincia Ecclesiale Cracoviense. Si sarebbe dovuto convocare, oltre che per
ragioni canoniche, e per le istruzioni della legge ecclesiale, per il bisogno di
una più profonda comprensione, da parte della nostra Chiesa della
ricchezza immensa dell'insegnamento del Concilio Vaticano
secondo».
IL SINODO DI CRACOVIA
Il Sinodo, capeggiato dal Metropolita, ebbe inizio
l'8 maggio del 1972 e risultò essere un'impresa, a dir poco,
monumentale.
Presidente della Commissione Generale fu Sua Ecc. Mons.
Stanislao Smolenski; presidente per la commissione degli Esperti per le
Questioni Pastorali e Sociologiche, il Rettore del seminario don Francesco
Macharski.
Lo statuto del Sinodo stabiliva l'ammissione di ogni cristiano
alle adunanze e definiva lo scopo del Sinodo stesso: Arricchimento della fede e
piena formazione della figura del cristiano, grazie alla testimonianza
cristiana. Quali mezzi, per raggiungere tali scopi, si indicava lo studio del
Concilio Vaticano II, una migliore conoscenza della situazione religioso-morale,
una riflessione sulla più completa realizzazione delle indicazioni del
Sinodo e la definizione delle norme legali e pastorali che avrebbero fornito
aiuto in ciò (art. II). Durante i sei anni che seguirono, le Commissioni
sinodali si dedicarono ai problemi più importanti della pastorale
nell'arcidiocesi, cercando per essa i metodi più adatti ed adeguati;
formularono e definirono, inoltre, i documenti sinodali. La ricchezza degli
argomenti trattati si rivela al solo scorrere i titoli dei documenti:
«Proclamazione della parola di Dio. - Trasmissione e sviluppo della fede
nella famiglia. - Catechesi ed Eucaristia, fonti della vita cristiana. -
Partecipazione del cristiano alla vittoria di Cristo sul peccato. - Pentimento e
sacramento della penitenza. - Il Sacramento dell'ordine. - Il Matrimonio
cristiano. - La santificazione del tempo. - Il bambino nella comunità
cristiana». E molti altri.
Bisogna inoltre aggiungere che prima di
arrivare alla formulazione definitiva, ogni documento veniva ridiscusso e spesso
trascritto, non intorno alla scrivania di qualche specialista, ma grazie
all'apporto di una grande comunità di fedeli.
Molte riunioni
plenarie si svolsero tra le mura della Cattedrale di Wawel e nell'aula
dell'ospitale abbazia di Mogila. In tutta l'arcidiocesi lavorarono circa
cinquecento gruppi di studio, composti da sacerdoti, religiosi, suore, studenti
e, più numerosi di tutti, padri e madri. Si univano per celebrare
l'Eucaristia, per i ritiri spirituali, per giornate di raccoglimento e
dibattiti. Il Metropolita ripeteva spesso che gli sarebbe piaciuto avere
«una Chiesa in educazione permanente». Ed aggiungeva ammonendo:
«Ma questo deve essere un apprendimento attivo - questo lo diceva nel 1972
- perciò nel lavoro dei gruppi di studio dobbiamo escludere il puro
intellettualismo, il conoscere per conoscere, questo lavoro deve entrare
profondamente nella vita, nel cristianesimo, nella vita interiore, nel governo
spirituale di ciascuno in particolare».
Il Sinodo cercava gradualmente
di realizzare l'opera del Concilio Vaticano II. Introduceva i laici nello
svolgimento della vita dell'arcidiocesi, indicava loro il ruolo nella missione
della Chiesa, preparava il modello dei consigli parrocchiali. Il Metropolita si
interessava di tutti i lavori ed aspettava di chiudere solennemente il Sinodo,
nella sua veste di Pastore di Cracovia, nell'anno 1979, in coincidenza con le
celebrazioni per il 900° anniversario della morte di San Stanislao. Tutto
però si sarebbe svolto in modo più solenne.
Il 28 settembre
ricorrevano i venti anni della consacrazione episcopale, conferita
dall'Arcivescovo Baziak al sacerdote Wojtyla. Il Metropolita decideva di
celebrare tale giorno nella maniera più raccolta possibile, senza troppi
festeggiamenti esteriori; così come in altre circostanze, trovò,
per un momento di riflessione, rifugio nel Santuario della Madonna a Kalwaria.
Alla vigilia del Giubileo passò dunque lunghe ore in preghiera, meditando
tra le stazioni della Via Crucis, cappelle silenziose che si trovano lungo la
collina del Santuario. In serata era già di ritorno a Cracovia. Il giorno
del Giubileo, che coincideva con la festa del Patrono della Cattedrale di Wawel
San Venceslao, fu inaugurato il Museo dell'Arcidiocesi, sorto per iniziativa del
Metropolita. La serata, tipicamente autunnale, era piovosa, ma l'acqua non
scoraggiava le centinaia di persone convenute. Il Metropolita si intrattenne con
molti ospiti, ammirò la raccolta del Museo, alla quale aveva aggiunto
anche un proprio dono: un reliquiario. Nessuno poteva prevedere che cosa sarebbe
accaduto di lì à qualche ora a Roma.
Proprio quella sera di
giovedì, infatti, il «Papa del sorriso», Giovanni Paolo I, non
sarebbe riuscito a riporre il libro che stava leggendo prima di addormentarsi e
a spegnere la luce. Morì, colpito da un attacco cardiaco verso le ore 23.
La notizia si sarebbe sparsa all'alba, allorché Padre Magee sarebbe
andato a svegliarlo come ogni giorno. Dalle pagine del libro rimasto aperto -
L'Imitazione di Cristo - di Tommaso da Kempis, riportiamo le seguenti
espressioni:
«Cum mane fuerit: puta te ad vesperum non perventurum.
Vespere autem facto; mane non audeas tibi polliceri. Semper ergo paratus esto:
et taliter vive, ut numquam te imparatum mors inveniat. Multi subito et
improvise moriuntur: nam hora qua non putatur, Filius hominis venturus
est». - Quando è mattino, pensa che non arriverai alla sera. Quando
giunge la sera, non osare sperare nel mattino. Infatti devi essere sempre pronto
e vivere in tal modo, che mai la morte ti colga impreparato. Molti muoiono
all'improvviso: infatti nessuno sa quando verrà il Figlio
dell'Uomo.
Ed infatti la morte entrò di colpo in quella stanza
del Vaticano, come presagivano le parole di quest'opera intrisa di misticismo ed
umiltà escatologica medioevale, lasciando solo un sorriso sereno sul
volto di Giovanni Paolo I. Si concluse così quel pontificato durato
appena trentatrè giorni.
A Cracovia nessuno voleva dar credito alla
notizia, tanto sembrava incredibile; fu Giuseppe Mucha, autista del Cardinale,
il primo che, avendola ascoltata alla Radio, la diffuse in Curia. Chi vide la
reazione del Metropolita a tale nuova, ricorda che rimase profondamente colpito,
e seppe esclamare solo: «Quanto incomprensibili sono le tue vie, o Signore,
pieghiamo davanti ad esse il capo».
Tuttavia il programma di quel
giorno non venne cambiato; nel pomeriggio il Cardinale, assistito da Mons.
Walancik, partì per una visita canonica a Zlote Lany, una parrocchia
nuova vicino a Bielsko. La visita si protrasse fino alla domenica, non
tralasciando gli ammalati. Sulla via del ritorno, vicino al Santuario di
Kalwaria, il Metropolita volle fermarsi, amava farlo così improvvisamente
durante i viaggi, per una breve passeggiata, ammirare il paesaggio, e meditare
tra sé i discorsi interrotti in macchina. Quella volta, chino sullo
scrittoio, sbrigò la corrispondenza. Tornato in Curia, la consegnò
perché fosse battuta a macchina; non voleva lasciare nulla in sospeso
prima di partire, l'indomani, 1° ottobre 1978, alla volta di Roma, per
partecipare ai funerali di Giovanni Paolo I ed al Conclave che sarebbe
seguito.
Karol Wojtyla al Sinodo di Cracovia
Wojtyla a colloquio con Giovanni Paolo I
IL CONCLAVE
Il 16 ottobre 1978, il terzo giorno del Conclave,
i Cardinali si riunirono nella Cappella Sistina. In seguito il Cardinale Jean
Guyot avrebbe scritto: «Ore 16,30, pieni di speranza riprendiamo i
lavori.
Senza alcuna pressione ci apparve chiara la scelta impostasi da
sola, in un modo che nessuno avrebbe potuto prevedere. Bisognerebbe vivere
personalmente questa esperienza, per scorgere come nell'Assemblea apostolica, lo
Spirito Santo influisce misteriosamente nel profondo dell'animo. Guardavo il
Cardinale Wojtyla seduto di fronte a me. Sembrava schiacciato da un peso enorme,
che lo aveva appena colpito. La testa china ancor più stretta fra le
spalle, non riusciva a nascondere la commozione. Come era colmo di tensione,
allorché, in profondo silenzio, si aspettava la risposta dell'eletto alla
domanda rituale rivoltagli solennemente, in nome del Sacro collegio, dal
Cardinale Villot: «Accetti?»
L'Arcivescovo di Cracovia espose le
ragioni che stavano alla base della sua accettazione; parlò lentamente,
con voce interrotta da un respiro profondo, nonostante il timore da cui era
preso e con cui di lì a poco si confiderà alla folla. Queste
ragioni sono, per loro essenza soprannaturali:
L'Amore a Cristo, la fiducia
della SS.ma Vergine, che è Sua Madre, infine il legame alla Chiesa ed il
desiderio di dimostrarLe obbedienza, in quanto esige dall'Eletto di
sottomettersi alla volontà di Dio. Per questo e solo per questo risponde
con la parola che lo legherà per sempre: «Accepto -
Accetto».
Di lì a poco suonavano le campane di tutte le Chiese
di Roma e con esse quelle di Cracovia e del mondo intero. Ormai Giovanni Paolo
II si affaccia dal balcone della Basilica...
Qualche tempo dopo
scriverà ai connazionali: «Cari compatrioti! Non è facile
rinunciare al ritorno in Patria, a 'quei campi rivestiti di mille colori, dorati
di frumento, argentati d'orzo!' come scrisse un grande poeta polacco,
Mickiewicz: 'A queste montagne e vallate, ai laghi e fiumi, a questa gente
amata, a questa Città Regale'. Ma se questa è la volontà di
Cristo, bisogna accettarla. L'accetto allora. Vi prego solamente che questo
distacco ci leghi ancora di più e ci unisca a ciò che forma il
contenuto del nostro comune amore. Non dimenticatevi di me nelle vostre
preghiere a Jasna Góra e in tutta la nostra Patria. Che questo Papa, che
è sangue del vostro sangue e cuore del vostro cuore, serva alla Chiesa e
al mondo nei tempi difficili della fine del secondo millennio. Vi prego di
conservare la fedeltà al Cristo, alla sua Croce, alla Chiesa e ai suoi
Pastori. Vi prego di opporvi a tutto ciò che deturpa la dignità
umana e degrada le tradizioni di una sana società, a tutto ciò che
può minacciarne l'esistenza e il bene comune, a tutto ciò che
può diminuirne il contributo al comune tesoro dell'umanità, dei
popoli cristiani e della Chiesa di Cristo. Permettete che vi citi le parole di
San Paolo: 'Soltanto però comportatevi da cittadini degni del Vangelo,
perché nel caso che io venga e vi veda o che di lontano senta parlare di
voi, sappia che state saldi in un solo spirito e che combattete per la fede del
Vangelo'.
Desidero ardentemente venire a voi per il nono centenario di San
Stanislao, al quale ci siamo preparati con tanto ardore in tutta la Polonia, ma
specialmente nell'Arcidiocesi e nella Metropoli di Cracovia. Ho fiducia che
questo Giubileo porterà un rinnovamento nella nostra fede e nei costumi
cristiani, giacché vediamo, da quasi ormai mille anni, in San Stanislao
il Patrono dell'ordine morale, così come in Sant'Adalberto il Patrono
dell'ordine gerarchico».
Aveva scritto: «Desidero ardentemente
venire a voi».
Sarebbe ritornato?
Ormai lo sappiamo: è
ritornato.
Indimenticabili giorni dal 2 al 10 giugno 1979: Varsavia,
Gniezno, Csestochowa, Cracovia, Kalwaria Zebrzydowska, Wadowice, Ogwiecim, Nowy
Targ, e ancora Cracovia. Fu dappertutto il Pellegrino nella bianca veste papale.
Il Pellegrino salutato con venerazione, con onori, con entusiasmo.
Pregava
con noi e ci parlava. Ancora una volta s'incontrava con l'Arcidiocesi
cracoviense, concludendo i lavori del Sinodo.
Ancora una volta, con umile
sottomissione, si presentò dinnanzi alla Signora di Jasna Góra.
Ancora una volta si fermò sul Santo colle di Kalwaria e, con una stretta
al cuore, nelle vie della città natale. Ancora una volta si genuflesse,
rendendo omaggio alle ceneri del Gólgotz dei nostri tempi e alla tomba
gigantesca del Soldato Ignoto: Auschwitz.
E dopo, non potendo nascondere la
commozione, baciò la terra degli avi in filiale
saluto.
«Né occhio vide mai, né orecchio udì,
né immaginò cuore umano che grandi cose ha Dio preparate per
coloro che lo amano» (I Cor., 2,9).