PAPI E BEATI - PAPA GIOVANNI PAOLO II - VESCOVO E CARDINALE

IL PIÙ GIOVANE VESCOVO DI POLONIA

Prima di tornare, però, si presentò alla sede varsaviese del Primate di Polonia. Vi si recò direttamente dall'autobus, vestito in borghese (naturalmente durante l'udienza con il Primate ebbe cura d'indossare una tonaca che gli era stata imprestata). Sembrava un turista affaticato più che il nuovo vescovo titolare di Ombia.
Dopo l'udienza, tornato presso le suore Orsoline che lo ospitavano, sulla via Wislana, s'immerse in una interminabile preghiera di molte ore.
Possiamo facilmente indovinare che cosa accadeva allora nel suo animo; ma nella quiete silenziosa di quella cappella, così lontana dal brusio della città e dalla calura estiva, dobbiamo lasciarlo in pace. Le parole qui sarebbero inopportune, tanto più che ormai sappiamo quanto la preghiera fosse, per quest'uomo con il volto sempre abbronzato dal sole e vestito in borghese, un grande, naturale atto umano.
Una delle studentesse, la suora orsolina Józefa Zofia Zdybicka, oggi professoressa di filosofia, ricorda le parole pronunciate in quell'occasione dal sac. prof. Franciszek Tokarz, poliglotta, storico della. filosofia indù e uomo dal carattere vivace e mansueto: «Finalmente la Curia mi ha dato retta. Andavo là e dicevo: fate vescovo Wojtyla. Pio lo è, saggio lo è, ed è anche buono. C'è una differenza fra me e lui: io, appena apro gli occhi (viaggiavano insieme da Cracovia a Lublino), esco per fumare una sigaretta; lui invece s'inginocchia davanti alla finestra e prega, prega senza fine...»
Il vescovo titolare di Ombia venne adibito come aiuto - deputavit auxiliarem - alla diocesi di Cracovia, e precisamente all'arcivescovo Baziak. La nomina venne firmata l'8 luglio 1958 dal Santo Padre Pio XII; probabilmente fu questa una delle sue ultime ordinanze, perché pochi mesi dopo, all'alba del 9 settembre 1958, il Papa moriva a Castelgandolfo. Neanche tre settimane dopo la morte di Pio XII, la domenica 28 settembre, nella cattedrale di Wawel, veniva consacrato il più giovane vescovo di Polonia, Karol Wojtyla.
Wawel era assediata di fedeli perché, fra l'altro, in quel giorno si celebrava la festa del patrono della Cattedrale, S. Venceslao, e appena il giorno prima era stato celebrato il passaggio delle reliquie di S. Stanislao. Negli atti «Notificationes a Curia Metropolitae Cracoviensis» v'è un'annotazione: «Questo tempio antico da ben trentun anni non vedeva un così solenne atto di consacrazione», da quando cioè fu qui consacrato, nel 1927, il vescovo Stanislao Rospond, decano della curia metropolitana, morto qualche mese prima della nomina a sacerdote del ragazzo di Wadowice.
La consacrazione venne officiata dall'arcivescovo Baziak assieme al vescovo Franciszek Jop, di Opole e al vescovo Boleslao Kominek di Wroclaw, il futuro arcivescovo e cardinale, e molto tempo prima, vicario di Kleparz, come il Nominato.
Il nuovo pastore, rivestito della pienezza del sacerdozio, mentre sentiva su di sé le mani del consacratore e sollevava con le braccia il Vangelo, secondo la secolare tradizione del Pontificato romano, e mentre recitava la preghiera di consacrazione e consumava, durante il Grande Sacrificio, insieme con il consacratore l'unica Ostia bevendo dallo stesso calice, ripensò probabilmente alle parole che Cristo disse una volta ai figli di Zebedeo: «Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20, -28). L'ufficio del vescovo conferisce: potere, autorità, dignità; ma innanzi tutto, come ha sottolineato il Concilio Vaticano II, si deve esprimere nel ministero più umile, nella disponibilità al sacrificio, anche il più grande. Oltre all'Unzione, il giovane vescovo ricevette il Nuovo Testamento ed il Pastorale, simboli dei tre offici: il sacerdotale, il profetico ed il reale. Poi gli venne messo l'anello al dito, come segno del «coniugio» con la sposa, la Chiesa Romana; infine gli venne imposta sul capo la mitria e gli fu consegnata la Croce.
La mitria gli fu offerta dall'arciabbazia di Tyniec, mentre il pastorale e la croce glieli donarono, in segno di ricordo, i cittadini di Wadowice, con gran commozione di Wojtyla.
Non lo avevano dimenticato neppure i suoi amici attori del Teatro Rapsodico, che gli avevano regalato un abito vescovile con il quale, recandosi alla chiesa di S. Floriano, Wojtyla passò in visita dalla zia Stefania Wiadrowska: che, malata, non potendo partecipare alla consacrazione del nipote, lo aveva pregato di andarla a trovare.
Il vescovo Karol Wojtyla

TOTUS TUUS

Il nuovo vescovo si scelse come massima il detto di S. Luigi Maria Grignion de Montfort: «Totus tuus» («totalmente tuo»). Wojtyla, come quel santo asceta bretone, fondatore di una congregazione missionaria, autore del noto trattato «Il perfetto amore verso Maria Vergine», desiderava servire senza limiti la Madre di Dio, fiducioso nel suo aiuto e nella sua intercessione.
Dopo la consacrazione mons. Wojtyla divenne membro del Capitolo metropolitano e Vicario generale dell'arcidiocesi; due anni dopo fu nominato scolastico del Capitolo.
Nonostante tali importanti e numerosi impegni, egli continuava a condurre la vita modesta di sempre; persino la casa che ora gli apparteneva si trovava nei pressi di quella che prima aveva abitato, in via Kanonicza 21. Un'antica casa con il portale ornato da una iscrizione scolpita nella pietra:
«Procul este profani»
(Profani state alla larga)
Abitava con lui la zia Stefania, che qui finirà gli ultimi giorni della sua vita.
Il vescovo era assediato da mille nuove incombenze, ma, pur costretto a ridurre il tempo destinato alle lezioni ed al lavoro scientifico, non interruppe mai i suoi faticosi spostamenti, compiuti spesso di notte, da Cracovia all'Università di Lublino, e le sue ricerche nel campo dell'etica.

AMORE E RESPONSABILITÀ

Nel 1960, un anno dopo la pubblicazione del saggio di abilitazione «Valutazioni sulla possibilità di costruire l'etica cristiana sulle basi del sistema di Max Scheler», gli veniva pubblicato il libro tanto discusso in statu nascenti a Santa Lipka: «Amore e responsabilità», studio etico. In Polonia fu pubblicato nel 1960 e nel 1962. In Francia: «Amour et responsabilité», 1965, con la prefazione del padre Henri de Lubac; in Spagna: «Amor y responsabilidad», 1969, con la prefazione dello stesso de Lubac; in Italia: «Amore e responsabilità» 1969 e 1978, con la prefazione del cardinal Giovanni Colombo.
Si tratta di un'opera singolare per diverse ragioni. L'amore di cui parla l'autore non risponde alla nozione di caritas, ma riguarda il sentimento legato alla sfera erotica e sessuale. Lo stesso autore, consapevole dell'inconsuetudine del tema per un sacerdote, scrive nell'introduzione alla seconda edizione: «Ai sacerdoti viene spesso vietata la competenza a trattare temi riguardanti il sesso ed i suoi problemi perché non li conoscono per esperienza diretta come gli uomini che vivono l'esperienza matrimoniale. Proprio per questo bisogna sottolineare che una delle fonti di questo libro è sì, l'esperienza, ma un'esperienza indiretta, quella che riceviamo attraverso il nostro lavoro pastorale. Esso ci pone così spesso in contatto con i problemi del sesso da privilegiarci di un'esperienza speciale. D'accordo: non si tratta di esperienza propria, ma di altri, eppure essa è molto più vasta di qualsiasi esperienza esclusivamente personale».
«Amore e responsabilità», libro dalla genesi insolita e con una interessante esposizione del problema sessuale messo a confronto con il Vangelo e con l'insegnamento della Chiesa, è un'opera pionieristica. Nel suo insieme il libro riesce a dare una delicata e complessa descrizione del fenomeno «amore» in tutte le sue sfaccettature biologiche e psicologiche. Ma non manca di spunti chiaramente polemici; basti pensare alla critica della concezione edonistica ed egoistica dell'amore, e alla denuncia delle false interpretazioni dell'istinto sessuale: da un lato quelle puritane, tipiche di certi ambienti religiosi, dall'altro quelle del freudismo pansessualista che, con le sue concezioni della libido, ha distorto notevolmente il costume erotico contemporaneo. Scrivendo dell'amore, il futuro Papa si oppone a tutte quelle tendenze che conducono ad una sua deformazione, e si propone di trattare il problema in conformità con la norma del personalismo, norma da lui stesso specificata: «Essa, con un principio che nella sostanza è un divieto, afferma che la persona è un bene da non 'usare', un bene che non può essere trattato come oggetto del proprio uso, cioè a dire come il mezzo per giungere allo scopo. Parallelamente a ciò procede il suo contenuto positivo: la persona è un bene, l'amore è il solo giusto e pienamente valido atteggiamento verso di essa. Questa norma - dice l'autore - nel suo contenuto negativo constata che la persona è un bene che non s'accorda con l'utilizzazione, in quanto non può essere trattata come un oggetto di godimento, quindi come un mezzo. Il suo contenuto positivo si sviluppa parallelamente: la persona è un bene al punto che solo l'amore può dettare l'atteggiamento adatto e valido a suo riguardo. È quanto enuncia il comandamento dell'amore». E poi: «Questo, in quanto comandamento, definisce e ordina una certa forma di rapporto verso Dio e verso gli uomini, un certo atteggiamento da adottare nei loro riguardi. Questa forma di rapporto, questo atteggiamento, sono conformi alla persona, al valore che essa rappresenta, quindi sono onesti. L'onestà, come base della norma personalistica, supera l'utilità (che l'utilitarismo ammette come solo principio); ma non la respinge, la mette in secondo piano: tutto ciò che è onestamente utile nei rapporti con la persona rientra nel comandamento dell'amore» (ed. Marietti, 1978).
L'amore, quello tra due persone, s'intende, significa, in primo luogo, il bisogno di vivere in armonia con i princìpi morali, perché questo esige la giustizia operata non soltanto verso il Creatore, ma anche verso la persona amata. Sia l'uno che l'altro sentimento di giustizia derivano dai comandamenti della religione. Partendo da questo punto di vista, morale e religioso, pur mostrando nel contempo una profonda conoscenza della complessa psicologia dell'amore, Wojtyla riabilita il principio della verginità, ribadisce l'alto valore del celibato, analizza i diversi atteggiamenti del sentimento dell'amore verso «lo Sposo Promesso», compreso quello della sublimazione puramente religiosa. Rappresenta poi l'istituzione della coppia monogamica degli sposi come una categoria appartenente al genere di vocazione propria di chi aspira alla perfezione.
L'Autore di «Amore e responsabilità» non cerca di sottrarsi alle questioni riguardanti il corpo, ma, al contrario, sorprende per la franchezza e il coraggio con cui affronta problemi difficili, arrivando anche a contraddire, quando è necessario, le opinioni tipiche di alcuni ambienti cattolici.
Il suo è uno studio sull'etica: il problema morale è centrale. Ricco di penetranti diagnosi, ma anche garbatamente polemico, è profondamente contemporaneo e svolge un ruolo ausiliare ed immediato nelle odierne controversie riguardo gli snaturamenti del costume.

LA BOTTEGA DELL'OREFICE

La problematica dell'amore, nella sua duplice dimensione, spirituale e corporea, appassionava in quel periodo Mons. Wojtyla. A questo libro si potrebbero affiancare molti suoi appunti e dissertazioni e soprattutto «La bottega dell'orefice», un poema drammatico dal sottotitolo che suscita curiosità: «Meditazioni sul sacramento del matrimonio che di tanto in tanto si trasformano in dramma» (ed. Libreria editrice Vaticana, 1978).
Questo poema, racchiuso quasi nella forma scenica del misterium, è una rappresentazione del percorso e delle tappe dell'amore: il primo incontro, la dichiarazione, il fidanzamento, il matrimonio, la maternità; ed è anche una specifica descrizione di questi rapporti, nei quali l'amore dei genitori acquista una continuità nell'amore dei loro figli. La «Bottega dell'Orefice» è un poema sorprendente, ricco di scene sublimi e di accorgimenti psicologici di rara acutezza: vi osserviamo la trasfigurazione di un grande amore che si completa con il dramma della perdita del coniuge durante la guerra. Assistiamo al disfacimento di un altro grande incantesimo d'amore che si dissolve in una assenza per ridursi infine ad un ricordo nebuloso, riflesso su di una vetrina strana di un negozio d'oreficeria dove erano state acquistate le fedi nuziali. Il tono è pessimistico? Si potrebbe dir di sì, leggendo questa definizione dell'amore:

...Ecco uno di quei processi che saldano l'universo, / uniscono le cose divise, arricchiscono quelle grette / e dilatano quelle anguste...

Le conclusioni che si possono trarre da questa formula sono confortanti: se in una generazione l'amore ha trovato ostacoli e forze distruttive, esso non muore, ma si rinnova nella generazione successiva, quella dei figli, irrobustito nei sentimenti ed affinato nell'aspirazione al bene.
Il Santo Padre, occupandosi in quei tempi del problema dell'amore, sfruttava non solo l'esperienza del confessionale, ma anche le conclusioni tratte dalle conversazioni con gli amici, con i collaboratori, con gli studenti ed infine con le persone incontrate occasionalmente. Ne parla con riconoscenza lo stesso Wojtyla in «Amore e responsabilità» e ne fanno menzione nei propri scritti gli amici di «zio Karol».

AMICIZIA CON L'UOMO DELL'EUCARISTIA

Tra le persone che hanno dato un contributo alle riflessioni di mons. Wojtyla fu Jerzy Ciesielski, una personalità eminente, prima studente e poi docente del politecnico di Cracovia. Aveva un unico desiderio: quello di vivere in una dimensione sovrannaturale. Il rev. Wojtyla, di qualche anno più anziano di lui, trascorse molte belle giornate assieme all'amico, ora sciando, ora vagando. Li affratellavano le preghiere recitate insieme, le messe celebrate nel fitto dei boschi, sulle rive erbose dei laghi, coperte ancora di rugiada mattutina. Jerzy Ciesielski, padre e marito felice, amava parlare della famiglia e discorrere della religiosità e della filosofia del lavoro.
«Si tratta del lavoro - scriverà il cardinale nel 1970 - inteso nella sua peculiarità che consiste in uno specifico atteggiamento verso l'oggetto, dettato dalla precisione che la tecnica ci offre. Ma nello stesso tempo si tratta anche del lavoro inteso come una componente essenziale della vita personale e familiare, della vita nell'ambiente di lavoro (e le persone di quell'ambiente lo ricordano benissimo). Ed infine, esso è una componente della vocazione cristiana. Jerzy amava il suo mestiere e sapeva scoprirne gli intrinseci valori, sapeva anche trovare per esso la giusta misura del dovere e dell'impegno. E se riusciva a riservare per esso il posto anche nel suo cuore, vuol dire che c'era in questo qualche mistero della vita interiore e una espressione di devozione a Dio che coltivava con cura e, di giorno in giorno, sviluppava in se stesso. Si aveva impressione che la tecnica, lo studio l'attività didattica fossero manifestazioni di un diverso lavoro, un lavoro interiore che aveva come proprio oggetto la parte più profonda ed irripetibile del proprio 'io', e che gli era stato donato come compito».
Questo frammento proviene da una rievocazione di Jerzy Ciesielski. Questo «uomo di Eucaristia» o «uomo della parola di Dio» - come viene definito in questo schizzo - perse la vita insieme con i suoi due bambini in una sciagura sul Nilo, nell'ottobre 1970. In quel periodo insegnava nell'università di Kartum e l'imbarcazione su cui viaggiava, per una collisione, affondò. Fu così che Wojtyla perse un altro grande amico: ed era, al pari di Jan Tyranowski, un uomo troppo eccezionale per non conservarlo in vita, almeno nelle parole. Ricordare questa splendida figura di uomo, oltre ad essere un obbligo dell'amicizia, era anche un dovere pastorale. È scomparso infatti un uomo completo, dall'esemplare vita cristiana, che rappresentava per noi una categoria importante nell'ambito delle attività tecnico-scientifiche. Dunque il cardinal Wojtyla, scrivendo nel 1970 questa commemorazione, intese presentare a tutti questo amico verso il quale aveva un debito di riconoscenza per l'esempio di una vita giusta, temperata ed attiva, interrotta così tragicamente in quell'autunno di tristezza.

UNA CONVERSAZIONE IN VIA KANONICZA

A Wojtyla non mancavano neppure conversazioni difficili. Un suo ex studente, incantato dalle omelie del giovane vicario, dopo anni tornò da lui pregandolo di essere ricevuto: lo voleva far partecipe dei propri dubbi di natura religiosa. Subito ricevette l'invito a recarsi da lui, a Cracovia. Il loro colloquio nel palazzo arcivescovile durò a lungo.
«Dopo - scrisse questo studente, di cui non conosciamo il nome - siamo usciti insieme dalla Curia, passeggiando verso Planty (l'aiuola verde che circonda la vecchia città). La giornata era splendida; il vescovo sorridente salutava tutti i passanti, togliendosi il cappello quando incontrava le persone più anziane. Con grande entusiasmo gli raccontavo le mie impressioni suscitate dai suoi scritti ed anche da alcuni passi del libro di T. Merton: «Nessun uomo è un'isola». Andando così attraverso i Planty, giunti ai piedi di Wawel, abbiamo girato per via Kanonicza, dove il vescovo abitava. Prima di entrare in casa, si scusò di non potermi invitare a pranzo perché lui stesso, come disse, mangiava alla mensa studentesca: il fatto mi sorprese enormemente.
Gli proposi allora di rivederci nel pomeriggio. Acconsentì. Alle 18 circa ero di nuovo in via Kanonicza, fui accolto con gentilezza e fui pregato di attendere un poco in biblioteca perché il vescovo era momentaneamente occupato.
La biblioteca era una stanza enorme, con al centro un lungo tavolo circondato da numerose sedie; le pareti erano tappezzate fino al soffitto da scaffali stracolmi di libri. Camminavo su e giù per la stanza, ma, preoccupato dallo scricchiolio del pavimento, mi sedetti su una sedia accanto alla porta. Dopo un po' il vescovo mi invitò nel suo studio: mi saltò subito agli occhi un inginocchiatoio appoggiato ad una parete su cui spiccava una grande immagine di Cristo crocifisso.
Mi sedetti, con l'impermeabile sulle ginocchia, vicino alla scrivania, su di uno sgabello rivestito di cuoio, e così riprendemmo il nostro discorso interrotto.
La conversazione verteva su Cristo e sul suo insegnamento. Col passare dei minuti ritrovavo pian piano me stesso.
Tutto quel che pareva da tempo essersi spezzato nel mio animo lentamente si ricomponeva e sembrava metter nuove radici. Ma, nei profondi meandri del mio animo mi tormentava l'inquietudine, l'incertezza. Volevo sentirmi dare da quest'uomo, in cui avevo riposto ogni mia speranza, la conferma delle verità sostanziali alle quali, in qualche modo, credevo. Ciò appunto mi spingeva a porre domande assurde e senz'altro dolorose per lui.
Gli chiesi se potevo permettermi di rivolgergli una strana domanda; poiché mi rispose di sì, dissi allora:
«Crede lei in Cristo?» Lo vidi profondamente turbato, forse ferito. Dopo un attimo di silenzio mi rispose che la domanda era veramente singolare ed aggiunse: «Credo». «E crede - incalzai - che Dio si sia rivelato a S. Paolo?». «Credo». E ancora: «E che Pietro andò incontro a Cristo camminando sulle acque?» Rispose: «Credo». Allora domandai: «Perché crede in tutto ciò?», e quando emozionato lui si mise a spiegarmi il perché, io lo interruppi dicendo: «Dunque, il sapere sostiene la fede?» Egli, con profonda convinzione, mi rispose: «Sì, la sostiene». «Ma lei, eccellenza - domandai infine - sarebbe pronto a dare la vita per Cristo?» Mi rispose: «Prego sempre di avere il coraggio per farlo, quando arriverà il momento».

IL CONCILIO VATICANO II

Gli anni 1962-1965 sono gli anni del Concilio Vaticano II.
Noi non pretendiamo esporre qui la benché minima parte dei problemi e dei fatti legati a questo rilevante momento della vita della Chiesa. Vogliamo semplicemente darne un breve resoconto.
Il Concilio Vaticano II è strettamente legato alla figura di Giovanni Paolo II, uno dei padri conciliari più attivi. Del resto, all'inizio del suo papato, si è richiamato per due volte a questa eredità: nel primo Urbi et Orbi, pronunciato il 17 ottobre 1978, e nell'enciclica Redemptor hominis, del 4 marzo 1979.

«Anzitutto - diceva nel messaggio Urbi et Orbi, il ottobre 1978 - desideriamo insistere sulla permanente importanza del Concilio Ecumenico Vaticano II, e ciò è per noi un formale impegno di dare ad esso la dovuta esecuzione. Non è forse il Concilio una pietra miliare nella storia bimillenaria della Chiesa ed anche culturale del mondo?».

L'iniziatore effettivo e l'organizzatore del Vaticano II fu Giovanni XXIII, anche se l'idea di convocare un tale consiglio di ecclesiastici era stata già concepita dai suoi predecessori. Tanto è vero che Pio XII aveva già nominato una commissione per preparare le tesi da svolgere nel concilio.
«Il Parroco del mondo», come stupendamente chiamavano l'indimenticabile Giovanni XXIII, annunciò la convocazione del Concilio subito dopo la propria elezione. Era un grande desiderio che aveva già espresso, nell'ottobre del 1958, in un colloquio privato, e che nel gennaio dell'anno successivo mise in atto annunciando la decisione ai cardinali.
Nel luglio dello stesso anno l'idea di questa grande adunanza venne esposta nella sua enciclica Ad Petri Cathedram, e due anni dopo, col motu proprio Superno Dei, veniva creata una nuova commissione in cui entrava a far parte, come rappresentante della Polonia, il cardinale Primate Stefan Wyszynski.
Il mondo veniva così a sapere che lo scopo del Concilio doveva essere quello del «ritorno alle fonti» e del rinnovamento della Chiesa nello spirito del Vangelo; ed infine dell'aggiornamento, cioè l'adattamento della Chiesa alla complessa realtà del nostro tempo.
L'11 ottobre 1962 ebbe luogo l'inaugurazione del Concilio, preceduta dall'ingresso nella Basilica di S. Pietro di quasi duemila Padri Conciliari, dalla S. Messa, dalla confessione di fede e dal discorso del Santo Padre.
Il futuro Papa Giovanni Paolo II partecipava a queste cerimonie insieme con altri sedici vescovi polacchi. Tre giorni dopo fu presente all'udienza concessa dal Santo Padre al Primate ed ai vescovi di Polonia. Fu proprio in questa occasione che il Santo Padre pronunciò le storiche parole sulle «terre riconquistate dalla Polonia», parole coraggiose e sorprendenti che elettrizzarono il mondo e riempirono di gioia i cuori dei Polacchi.
Il vescovo Wojtyla arrivò al Concilio Vaticano II come capo della diocesi di Cracovia perché prima che cominciassero le riunioni a Roma, la diocesi cracoviense aveva vissuto dei momenti di dolore: il 15 giugno 1962 moriva, inaspettatamente, l'arcivescovo Baziak e il governo della diocesi passava nelle mani del suo successore.
Mons. Wojtyla con profondo rimpianto salutò colui che era stato il suo consacratore, e con l'amore filiale che unisce il discepolo al maestro, lo ricorderà molte volte ancora nelle sue omelie.
Durante il funerale il vescovo Wojtyla disse: «Oh, come acutamente capiva le difficoltà nelle quali s'imbatte l'uomo moderno! Quante volte discutendo con lui nel suo studio toccavamo i temi più dolenti del giorno d'oggi: la famiglia, il matrimonio, l'educazione; proprio allora si svelava il volto di un pastore che cerca una pecora abbandonata, smarrita, destinata forse alla perdizione».
Il giorno dopo il funerale il Collegio dei Canonici eleggeva il nuovo vicario del Capitolo cracoviense: il giovane quarantaduenne vescovo Wojtyla diventava così il capo della diocesi, anche se non ancora il suo vescovo ordinario. Era ormai conosciuto non soltanto come pio servitore di Cristo e come un intelletto non comune, ma anche come un instancabile ed energico organizzatore della vita ecclesiale nell'arcidiocesi.

LA CHIESA, GRANDE COMUNITÀ

A Roma, mons. Wojtyla, insieme con altri vescovi polacchi, prese alloggio nel bellissimo Collegio Polacco, in piazza Remuria sull'Aventino Vecchio.
Questo Collegio, di cui allora era Rettore mons. Ladislao Rubin, oggi cardinale, ancora molte volte ospiterà mons. Wojtyla. In queste occasioni verranno rispolverate le vecchie conoscenze romane, specie quelle dei tempi dell'Angelicum. Tra loro spiccava la figura anziana del professore Garrigou-Lagrange, che dal papa Giovanni XXIII era stato nominato uno dei trenta consiglieri del Concilio.
Ma l'emozione più grande fu l'incontro di tutti i vescovi nella Basilica di S. Pietro, e poi i primi contatti con il «Parroco del mondo», i dibattiti nelle congregazioni conciliari, spesso molto vivaci, come durante la discussione sulle «fonti della Rivelazione».
La Chiesa svelava il suo potere sovrannaturale e la sua «sovratemporalità» e, nello stesso tempo, mostrava la volontà di mantenere i legami con la realtà del XX secolo, pur rimanendo fedele alla sua secolare tradizione. Diventava anche chiaro, come mai lo era stato, che non una razza e non una cultura fanno parte della Chiesa, ma che essa forma una potente comunità universale, attraverso la quale scorre lo stesso fiume della fede.
In quell'autunno del 1962 il poeta Wojtyla scrive questi versi:

Sei tu, Mio Diletto Fratello, sento in te
un immenso continente,
dove i fiumi di colpo s'arrestano... e dove
il sole cuoce
tutto l'essere, come un crogiuolo la ganga
del ferro -
in te sento il mio stesso pensiero:
ha vie diverse, il pensiero, ma con la stessa
bilancia divide la verità dall'errore.
Ecco allora la gioia di misurare con la stessa
bilancia i pensieri
che brillano in modo diverso nei tuoi occhi e nei miei
pur avendo un'identica essenza.

La poesia appartiene al ciclo dedicato alla Basilica di S. Pietro, intitolata «Chiesa», dall'eloquente sottotitolo «I pastori e le fonti», composto nei giorni 11 X - 8 XII del 1962.
Ecco le riflessioni sulla vecchia Basilica, sul pavimento che da semplice elemento architettonico assume l'importanza di un simbolo religioso: un pavimento-roccia, simbolo dell'unità cristiana, del suo perdurare nei secoli e della sua missione nel mondo:

Qui i nostri piedi toccano la terra su cui
sono sorte
tante pareti e colonne... se tra queste non
ti perdi, ma vai trovando unità e significato -
è perché il Pavimento ti guida. Esso unifica
non solo gli spazi
di una struttura rinascimentale, ma gli
spazi dentro di noi
che camminiamo così consapevoli delle nostre
debolezze e sconfitte.
Sei tu, Pietro. Vuoi essere qui il Pavimento
su cui camminano gli altri
(che avanzano ignorando la mèta) per giungere
là dove guidi i loro passi
unificando gli spazi con lo sguardo che agevola
il pensiero.
Vuoi essere Colui che sostiene i passi - come
la roccia sostiene lo zoccolare di un gregge:
Roccia anche il pavimento d'un gigantesco tempio.
E il pascolo è la croce.

LA VERITÀ REGGE L'UOMO

In un'altra poesia dello stesso ciclo il poeta dice:

La verità non versa olio sulle piaghe
per attenuarne il bruciore,
non si mette sull'asino che poi venga spinto per via:
la verità deve dolere e nascondersi.
(...)
La verità regge l'uomo.
(...)

Quell'autunno del Concilio Vaticano II veniva turbato dalle inquietudini politiche scoppiate nella regione del Mar dei Caraibi. Il conflitto cubano poteva portare allo scontro tra le potenze militari del mondo. Giovanni XXIII in quell'occasione indirizzava ai popoli il suo ardente appello per la pace nell'enciclica Pacem in Terris. I momenti di tensione, quando ormai sembrava che la pioggia radioattiva stesse per piombare sul mondo, scomparvero: gli sforzi della Chiesa, uniti a degli uomini di buona volontà, avevano dato buoni frutti. Ancora una volta divenne chiaro che la Chiesa, non separandosi dalla realtà con la Porta di Bronzo, può fare molto anche se l'unica arma di cui si serve è la verità che sostiene l'uomo, una verità che «non versa olio sulle piaghe per attenuarne il bruciore» e «non si mette sull'asino che poi venga spinto per le strade».
L'autorità di Giovanni XXIII crebbe enormemente. Si avvicinava però alla fine del suo cammino terrestre e del suo straordinario pontificato.
L'8 dicembre 1962 Giovanni XXIII chiudeva solennemente la prima sessione del concilio Vaticano II. Si vedeva che il Papa era malato, e si sapeva che la sua malattia era incurabile. Ma solo dopo alcuni mesi arrivarono i difficili giorni dell'agonia, lunga e spaventosa.
Il 3 giugno del 1963 il buon Papa spirava.

I SUOI PREDECESSORI

A Cracovia il vescovo Wojtyla, unendosi nel cordoglio a tutti gli uomini del mondo, pregava per l'anima del Grande Parroco. Forse gli ritornavano in mente i momenti che li avevano uniti; come quando era stato invitato dal Santo Padre Giovanni XXIII a recitare insieme a Lui l'Angelus dalla finestra di S. Pietro.
Giovanni XXIII ricordava spesso il suo lontano soggiorno in Polonia e la Messa allora celebrata nella Cattedrale di Wawel, e la visita a Czestochowa, quando rimase a lungo inginocchiato davanti al quadro della «Madonna Nera di Jasna Góra».
Ora, morto Lui, bisognava continuare il Suo operato.
Giovanni XXIII diede l'ultima udienza privata il 20 aprile 1963 a un cardinale polacco, il Primate Stefan Wyszynski. Salutandolo sulla soglia della sua biblioteca il Santo Padre disse: «Qui, in Vaticano si stanno molto preoccupando per il papa malato e per le sorti del Concilio. Io rispondo: che cosa succederà? Il papa morirà, verranno i cardinali, sceglieranno un papa nuovo e, in un mese, ritornerà la quiete».
Queste parole di Giovanni XXIII, riportate dal cardinale Wyszynski commuovono per la loro semplicità, per la naturalezza con la quale sono state pronunciate da un cristiano sulla soglia della dipartita per la rotta della felicità eterna, ma contengono anche il dramma umano, il dramma di chi le ha pronunciate. E la speranza contenuta in esse non è stata annientata.
Il nuovo papa, Paolo VI, ha continuato i lavori del Concilio con la dignità estrema e con la ponderatezza che lo distinguevano sempre, e, senza distorcerne gli indirizzi e gli scopi sostanziali, ha condotto in porto il Vaticano II.
Il Concilio Vaticano II aveva un chiaro carattere ecclesiologico e pastorale. Il suo traguardo principale fu l'arricchimento della fede sì, inteso però, e lo vogliamo sottolineare per evitare ogni malinteso, non come una nuova interpretazione oppure un complemento della fede stessa con qualche nuovo elemento di dottrina. Il magistero della Chiesa, cioè l'insieme delle verità delle quali essa è depositaria e portavoce, non ha subìto nessun cambiamento; è stato soltanto sottoposto all'analisi molto approfondita, dove si prendevano in considerazione i «signa temporis».
A proposito della fede, il Concilio ha voluto definire in che cosa consista il suo arricchimento: esso è sviluppo interiore personale e comunitario in stretto rapporto con la coscienza, mediante la quale si esprime l'opera di Dio direttamente nell'animo umano, ed in rapporto agli altri uomini, per il trionfo dei valori cristiani nel mondo contemporaneo, in una società che sia rispettosa e garante del diritto di manifestare pubblicamente la propria credenza religiosa.
Il Concilio ha inoltre voluto precisare con più chiarezza il concetto di «Chiesa». Essa è «comunità del Popolo di Dio», una comunità destinata a partecipare collettivamente all'opera di Cristo, il che conferisce grande importanza e nobiltà al ruolo che i cristiani laici debbono svolgere nel loro apostolato secolare. Perché nella Chiesa, oltre al sacerdozio ieratico, sacramentale, esiste un sacerdozio universale che raccoglie tutti i fedeli e li obbliga a donarsi a Dio.
Nel «Decreto sull'apostolato dei laici» il Concilio ha anche precisato che il bene comune, come la legge morale impone, non può disconoscere il diritto della persona ad associarsi liberamente, a manifestare le proprie opinioni ed a professare, sia privatamente che pubblicamente, la propria fede. Quindi, proprio i cattolici, che professano l'amore, hanno il dovere di precisare il loro rapporto con i «non credenti», e di rendersi disponibili al dialogo anche con coloro che manifestano convinzioni diverse.

Nell'amore di patria e nel fedele adempimento dei doveri civili - leggiamo nel Decreto sull'apostolato dei laici - i cattolici si sentano obbligati a promuovere il vero bene comune, e facciano valere il peso della propria opinione in maniera tale che il potere civile venga esercitato secondo giustizia e le leggi corrispondano ai precetti morali e al bene comune. I cattolici esperti in questioni pubbliche e, come è naturale, saldamente ancorati alla fede e alla dottrina cristiana, non ricusino le cariche pubbliche, potendo per mezzo di esse, degnamente esercitate, provvedere al bene comune e al tempo stesso aprire la via al vangelo.

I POLACCHI AL CONCILIO

In tutte le attività conciliari, il ruolo svolto dai vescovi polacchi fu molto importante; fu tra l'altro per loro iniziativa che Paolo VI annunziò il 21-XI-69 che Maria è la Madre della Chiesa, dedicandole tutto il genere umano. Il giovane vicario capitolare di Cracovia, pur non essendo all'inizio inserito in nessuna delle commissioni conciliari, apparteneva, come già abbiamo detto, al gruppo dei Padri particolarmente attivi e ascoltati con attenzione crescente.
Durante la terza sessione, Wojtyla attirò l'attenzione generale quando, primo fra tutti i Padri, criticò lo schema XIII, proponendone una nuova formulazione elaborata dai teologi di Cracovia sotto la sua guida. Il controverso schema XIII era stato approntato da due commissioni conciliari, quella teologica e quella per l'apostolato dei laici. Wojtyla lo giudicò troppo paternalistico, specie in ciò che riguardava la struttura ecclesiastica, e affermò che occorreva considerare il ruolo del laicato da un altro punto di vista, allargando il suo ambito entro la Chiesa e aumentandone il peso Anche gli altri Padri espressero le loro osservazioni, dopodiché lo schema venne nuovamente redatto da una delle sottocommissioni centrali, di cui il vescovo di Cracovia venne chiamato a far parte. Il futuro papa incontrò in questa sottocommissione molti insigni teologi, come ad esempio Yves Congar, i cardinali Jean Daniélou e Bernard Häring (tra gli uditori vi erano Mieczyslaw Habicht e il prof. Stefan Swiezawski). Non ci soffermeremo qui su tutti i dettagli dell'attività e degl'incontri del vescovo di Cracovia al Concilio; vogliamo solo aggiungere l'elenco dei suoi discorsi, notando che il vescovo Wojtyla - insieme col primate Wiszynski e il vescovo Klepacz - era quello che prendeva la parola più spesso.

GLI INTERVENTI PRINCIPALI

ottobre 1962 (prima sessione) -
Discorso sullo schema sulla liturgia
21 novembre 1962 -
Discorso sullo schema sulle fonti della rivelazione
21 ottobre 1963 (seconda sessione) -
Discorso sullo schema sulla Chiesa
25 settembre 1964 (terza sessione) -
Discorso sullo schema sulla libertà religiosa
8 ottobre 1964 -
Discorso sullo schema sull'apostolato dei laici
21 ottobre 1964 -
Discorso sullo schema la Chiesa nel mondo contemporaneo
22 settembre (quarta sessione) -
Discorso sullo schema sulla libertà religiosa
28 settembre 1965 -
Discorso sullo schema la Chiesa nel mondo contemporaneo

LE BASI DEL RINNOVAMENTO

In verità la voce del futuro Giovanni Paolo II risuonò su quasi tutti i documenti più importanti del Concilio. E non era solo la voce dell'uomo della fede e di un pastore d'anime di grande esperienza né di uno scienziato che stupisce con la profondità delle sue speculazioni teologiche, etiche e filosofiche; in questi interventi si rivelava una formazione spirituale moderna di un vescovo che ha sulle spalle un'esperienza molteplice. La sua visione del mondo non trascurava i «segni del tempo» e denotava un atteggiamento antitradizionale verso la problematica discussa; senz'altro questa formazione era molto lontana dall'atteggiamento estremistico. Questo atteggiamento non disturbava in nessun modo la ricerca di un rapporto equilibrato con la realtà, un rapporto naturale e senza forzature, in cui il coraggio di essere d'accordo non deve escludere il coraggio di essere contro.
Durante il Concilio il futuro papa parlò più di una volta alla Radio Vaticana, mandando lettere pastorali ai fedeli e informandoli sistematicamente sullo svolgimento dei dibattiti di Roma. «Lavorando su questa importante questione - disse il 20 ottobre 1965 nella sua relazione radiofonica sulla Dichiarazione sulla libertà religiosa molte volte ci viene in mente il Concilio di Costanza e il rettore dell'università cracoviense, Pawel Wlodkowic, il quale sosteneva a Costanza che non è lecito convertire al Cristianesimo né con la spada né con la forza, e lo diceva pensando ai crociati e alle loro guerre di religione. La storia ci ha allontanato da quei fatti ma il problema è rimasto».
Il Concilio Vaticano II fu anche il tema importante delle omelie e delle lettere pastorali successive e degli articoli di Wojtyla, e prima di tutto del suo impegnativo libro «Le basi del rinnovamento», edito nel 1972, che è uno studio sulle realizzazioni del Vaticano II e una «prova dell'iniziazione» dei contenuti conciliari.

VIAGGIO IN TERRA SANTA

Il vescovo Wojtyla partì alla volta della Terra Santa prima del Natale 1963, assieme ad un gran numero di partecipanti al Concilio, fra i quali v'erano vescovi polacchi.
L'itinerario di questo viaggio prevedeva come prima tappa la visita a Gerusalemme e dintorni, e come meta finale, la lontana Galilea.
Gerusalemme, la città che aveva condannato a morte Cristo, suscitò sentimenti di depressione e di tristezza. Lungo le sue vie antiche e strette s'innalzavano le stazioni della Via Crucis, ma solo due di esse: la terza - dove Cristo cadde sotto la croce, e la quarta - dove incontrò Maria, si conservano ancora intatte: alla loro vista la commozione religiosa si mescolò ai sentimenti patriottici che di colpo si risvegliarono. O destino polacco! Dopo la seconda guerra mondiale queste cappelle erano state restaurate proprio dai nostri connazionali che non hanno dimenticato di creare un piccolo museo di memorie polacche.
Oltre a queste due cappelle, anche la chiesetta di S. Pietro in Tiberiade era testimonianza dei sentimenti religiosi del popolo errante polacco. Infatti questa chiesa fu restaurata, durante l'odissea della guerra, dai soldati del secondo corpo d'armata polacco del generale Anders; e furono quei soldati ad innalzare anche la statua del Primo Apostolo. Essi non immaginavano, allora, che la loro opera sarebbe stata ammirata da un compatriota destinato dalla Provvidenza a divenire il successore di Pietro. Il pensiero che più li affliggeva in quel tempo era la guerra e la perduta indipendenza della patria sconfitta; ogni altro gesto, quindi, era solamente un puro e disinteressato bisogno di attestare la loro spontanea religiosità; però Colui che camminò su questa terra disse: «Non c'è nulla di nascosto che non debba essere manifestato e nulla di segreto che non debba esser messo in luce» (Mc 4, 22).
I padri sinodali non tralasciarono di visitare anche gli altri luoghi sacri, ed in quel tiepido dicembre in Terra Santa, mentre cambiava il paesaggio scorrevano le pagine della Sacra Scrittura: Nazaret, con la casetta della Sacra Famiglia; la chiesa e la cripta dell'Annunciazione; le rovine di Cafarnao, la città dove il paralitico fidente riacquistò le forze; il monte Tabor, dove avvenne la Trasfigurazione e dove gli apostoli videro una nube bianca «... e dalla nube uscì una voce che diceva: Questo è il mio figlio, l'eletto, ascoltatelo» (Lc 9, 35).
E poi ancora, il pozzo di Giacobbe a Sychem, dove ancor oggi si riflette la luce nell'acqua eterna nel suo perdurare reale. Ricordate? Fu proprio questo pozzo ad accendere l'immaginazione del poeta Andrzej Jawién quando scrisse gli stupendi versi del «Canto dello splendore dell'acqua» (edito in Italia dalla Libreria Editrice Vaticana, nel 1979, nel volume intitolato: «Il sapore del pane»).
Il pellegrinaggio in Terra Santa si concluse il 15 dicembre 1963 e ciascun vescovo tornò nell'ovile di Cristo.
Intanto in Vaticano si apprestavano a scrivere la «bolla nominativa»:

«Paulus episcopus servus servorum Dei venerabili fratri Carolo Wojtyla, adhuc sacro Antistiti Sedis titulo Ombitanae, electo Archiepiscopo Metropolitae Cracoviensi, salutem et apostolicam benedictionem...»
Wojtyla con Wyszynski a Cracovia per il giubileo di San Stanislao Vescovo

1964, INGRESSO A WAWEL

Nella domenica dell'8 marzo 1964 ebbero luogo le celebrazioni dell'ingresso dell'Arcivescovo Wojtyla nella basilica di Wawel. Il giorno precedente il Nominato ricevette un telegramma dal Cardinale Wyszynski, Primate di Polonia:
«L'ingresso di Vostra Eccellenza nell'Arcicattedrale di S. Venceslao a Wawel, sul trono di S. Stanislao Vescovo Martire, e del venerato Vincenzo Kadlubek, è salutato da tutti i fedeli con grandissima gioia e con sovrannaturali sentimenti di comunione nella preghiera e nella speranza. Con il cuore, con la preghiera e con le mani fraterne benediciamo l'arcipastore di Cracovia, e, attraverso il cuore Suo, auguriamo la pienezza della grazia e dell'amore divino ai sacerdoti dell'Archidiocesi, alle Congregazioni e al Popolo di Dio».
Quella domenica di marzo, secondo il calendario liturgico, portava il nome di «laetare», gioiosa. Ed infatti fu veramente e pienamente gioiosa, perché il governo dell'arcidiocesi, dopo essere rimasto vacante per tredici anni, passava nelle mani del settantaseiesimo pastore, a cominciare dall'anno 1000, e del secondo, dopo Sapieha, metropolita della sua storia.
Tutto in quel giorno si rivestì di un'atmosfera di festa serena. Il coro davanti alla cattedrale salutò l'arcivescovo con un fortissimo:

Ecce Sacerdos Magnus
qui in diebus suis placuit Deo...

Il luogo non poteva essere scelto meglio, perché questa cattedrale pantheon, di lì a poco, avrebbe celebrato il seicentesimo anniversario della sua consacrazione!
La collina di Wawel era cosparsa di bandiere variopinte, festoni, galloni, corone, cotte, abiti talari che si mescolavano con la folla altrettanto colorita e festosa. Le delegazioni, arrivate da tutte le regioni della Polonia, si distinguevano per i costumi tradizionali; tutte le campane di Cracovia partecipavano alla festa, ma su tutte dominava il lento, calmo ed austero suono della campana «Sigismondo».
L'arcivescovo entrò nella cattedrale e pregò davanti alla confessione di San Stanislao Vescovo. In alto, sorretto da quattro angeli, dominava il sarcofago del santo; in basso, inserita nel pavimento, una semplice lastra informava: «Qui giace Adam Stefan cardinale Sapieha»...
Durante la santa Messa vennero lette le bolle papali e venne eseguito il cerimoniale dell'Homagium. Il Metropolita indossava un eccezionale paramento arcivescovile: due infule, una settecentesca, appartenente al vescovo Andrzej Lipski, e un'altra ottocentesca, usata da un altro dignitario, Jan Lipski (la coincidenza dei nomi è casuale). Sotto la cappa magna viola, bordata di ermellino, sporgeva una pianeta pesante di seta bianca, lasciata in eredità alla Chiesa dalla pia regina Anna Jagellonica. Al dito splendeva l'anello con lo smeraldo che, nove secoli prima, era appartenuto al vescovo Maurus e che era stato scoperto durante gli scavi archeologici nella cripta di S. Leonardo. Anche il pastorale era antico, perché proveniva dai tempi del re Giovanni Sobieski. Ma l'oggetto più prezioso portato quel giorno dal Metropolita fu il razionale che, similmente al pallio, era il segno del potere ricevuto; era formato da due strisce incrociate sul petto, ed eseguito secondo le norme indicate nel Vecchio Testamento: «Farai il pettorale del giudizio, artisticamente lavorato, di fattura uguale a quella dell'efod: con oro, porpora viola, porpora rossa, scarlatto e bisso ritorto. Sarà quadrato, doppio; avrà una spanna di lunghezza e una spanna di larghezza. Lo coprirai con una incastonatura di pietre preziose disposte in quattro file. Una fila: una cornalina, un topazio e uno smeraldo: così la prima fila. La seconda fila: un turchese, uno zaffiro e un berillo. La terza fila: un giacinto, un'agata e un'ametista. La quarta fila: un crisolito, un onice e un diaspro. Saranno inserite nell'oro mediante i loro castoni» (Es. 28, 15-20).
Oggi il privilegio di portare il pettorale appartiene solamente ai quattro ordinari di quattro diocesi al mondo: a quella di Cracovia, e a quelle di Paderborn, di Eichstaedt e di Toul-Nancy. Il pettorale portato in quel giorno dal nostro Metropolita fu ricamato, sembra, dalla nostra pia regina Edwige: «Hedwigis Regina Ludovici Regis filia» - come annuncia la scritta su di esso.
Che cosa pensava l'arcivescovo Wojtyla quando, al cospetto della storia, onnipresente su questa collina e in questa cattedrale, diventava il governatore della chiesa di Cracovia?
«Tutti ci rendiamo conto - disse durante l'omelia - che non è possibile varcare la soglia di questa Cattedrale senza commozione, anzi, direi di più, non è possibile varcarla senza un brivido interiore, senza timore; perché in essa è contenuta - come in poche altre cattedrali del mondo - l'immensa grandezza attraverso la quale ci parlano tutta la nostra storia, tutto il nostro passato. E il nostro passato, la nostra storia si rivolgono a noi con l'insieme dei monumenti, si rivolgono a noi con l'insieme dei sarcofaghi, degli altari e delle opere d'arte, ma soprattutto si rivolgono a noi con l'insieme dei nomi e delle iscrizioni. Tutti questi nomi ed iscrizioni hanno un'identità, mentre nell'insieme segnano le tappe del grandioso millenario cammino della nostra storia.
Se perfino l'uomo che entra quale pellegrino occasionale in questa Cattedrale, deve arrestarsi al cospetto di tanta grandezza, potrebbe non arrestarsi l'uomo che entra per apportare alla realtà esistente un qualcosa di nuovo?
Con tali sentimenti che mi è perfino difficile esprimere, perché superano la capacità del cuore umano, sono sempre entrato in questa Cattedrale; vi rientro oggi, per voi e per me, rivestito di un nuovo carattere. Appena entrato, tutto il passato mi si è rappresentato come un grande disegno del quale emergono solo alcuni particolari. Questi particolari, specialmente i più vicini al cuore, mi hanno sempre accolto, ed oggi, con questo mio ingresso li faccio miei.
Il sarcofago di San Stanislao vescovo di Cracovia è senza dubbio un tale particolare; quale testimonianza racchiude questo nome!
Ieri sera mi sono recato in pellegrinaggio, per ricevere ispirazione, alla tomba di un altro Vescovo di Cracovia, il beato Vincenzo Kadlubek, e quando oggi mi sono trovato davanti al sarcofago di San Stanislao, ho avuto la consapevolezza che sotto questo altare riposa - ho timore di dirlo - il mio Predecessore. Ho timore a pronunciarne il nome e il cognome: Cardinale Adamo Stefano Sapieha, perché tutti in Polonia sanno cosa egli rappresenti; di tale uomo, lo abbiamo sentito poco fa, il Santo Padre mi ha designato successore.
Nel 1946, il 1° novembre, il Cardinale Sapieha mi impose le mani e mi ordinò sacerdote: mi generò al sacerdozio.
Era anche doveroso per me soffermarmi, e mi sono soffermato, davanti ad un altro luogo: la tomba della regina Jadwiga (Edvige); la nostra grande aspirazione, la nostra grande speranza, il passato che in una maniera così singolare si unisce al nostro presente.
Un posto ancora, che si trova qui vicino, devo additarvi in questa grande rassegna di monumenti, ma soprattutto di nomi, cognomi e persone: l'arcivescovo metropolita Eugenio Baziak. Fu lui che impose nuovamente le mani su di me, consacrandomi vescovo, il 28 settembre 1958. Sono stato a lui legato nell'Episcopato in quella speciale fratellanza che lega i Vescovi nell'unità della loro vocazione».
Poco tempo dopo l'arcivescovo Wojtyla tornò a Roma per la seconda sessione del Concilio Vaticano II: in quest'occasione ricevette dalle mani di Paolo VI il pallio. Questo segno del potere ecclesiale e dell'unione con l'eredità di S. Pietro lo indossò per la prima volta nel 1964 durante la solenne Messa di Natale, a Cracovia.
Passarono ancora tre anni; quando il 26 giugno 1967 il Santo Padre Paolo VI annunciò l'elenco dei ventisette nuovi cardinali, nella grande aula dell'Auditorio Pio XII, in via Conciliazione, il cardinale Cicognani, allora segretario di Stato, consegnò i decreti di nomina. Uno di essi, con la perenne formula, annunciava:

«Romae
in aedibus apostolicis Vaticanis
ante diem VI calendas iulias
anno Domini MCMLXVII
Paulus VI Pont. Max.
creavit ac renuntiavit
S. R. E. Presbyterum cardinalem
Carolum Wojtyla...» etc.

il che si può tradurre così:

Roma
nella sede apostolica del Vaticano
il giorno sesto prima delle Calende di
luglio nell'anno del Signore 1967
Paolo VI Pontefice Massimo ha creato e proclamato
Karol Wojtyla
prete cardinale di Santa Romana Chiesa......

BERRETTA ROSSA

Due giorni dopo, il 28 giugno 1967, i neocardinali ricevono dal Papa i berretti purpurei: «Per la gloria di Dio onnipotente e per la gloria della Chiesa - diceva Paolo VI ad ogni cardinale nel momento di porre la berretta - accogli questo segno distintivo della investitura cardinalizia, per la quale devi diventare il difensore della fede fino allo spargimento del tuo sangue».
Quando il cardinal Wojtyla si avvicinò al Papa, per la prima volta scrosciarono gli applausi. Come si vede, quel polacco non era una persona sconosciuta...
Il futuro papa Giovanni Paolo II diventa così il decimo cardinale della sede cracoviense. Nell'arco di dieci secoli in questa diocesi si erano succeduti cardinali appartenenti alle più illustri casate della Repubblica Polacca, eppure nessuno si meravigliò quando a questi nomi si aggiunse quello di un modesto provinciale di Wadowice. Forse qualcuno, trovatosi per caso alla stazione ferroviaria di Katowice, in Polonia, sarà rimasto sorpreso alla vista di quel giovane prete in spolverino, che, tornato da Roma, veniva acclamato come cardinale.
Prima di lasciare Roma il cardinale partecipa, con un gruppo di trecento pellegrini polacchi, ad una udienza papale; e fu durante questa occasione che Paolo VI, dopo aver ricordato il suo soggiorno in Polonia, li pregò di parlargli in lingua polacca. Paolo VI era stato ospite della Polonia due volte; una volta come inviato della nunziatura romana; e la seconda per concelebrare, insieme con il Principe Metropolita, la consacrazione delle campane della chiesa di Auschwitz.
Il cardinal Wojtyla, tornando in Polonia, passava per Venezia e per Vienna dove, sulla collina di Kahlenberg, celebrava la S. Messa. È questa la collina dove la Polonia visse un frammento della propria storia: qui il re polacco Giovanni Sobieski ottenne una grande vittoria sui Turchi, nel 1683. Dopo questa tappa, che ricorda momenti felici vissuti dai Polacchi, il nostro cardinale non dimenticava di fermarsi sul luogo in cui, come vuole la leggenda, espiò la sua gran colpa l'infelice re polacco Boleslao il Coraggioso, che nell'anno 1079 aveva ordinato l'uccisione di S. Stanislao, divenuto il più venerato santo polacco. Questo luogo di tristi ricordi si chiama Osjak.
Sulla strada del ritorno Wojtyla si sofferma pure su quel luogo intriso ancora di recenti tragedie, ove nella loro immobilità sopravvivono i resti di un campo di concentramento, Mauthausen.
Il 9 luglio 1967 il Metropolita di Cracovia fa il suo ingresso solenne, come cardinale, nell'arcicattedrale di Wawel. Qualche mese dopo, nuovamente a Roma, proprio perché porporato, gli veniva concesso, secondo la tradizione, di celebrare la messa nella chiesa di S. Cesareo, in via di Porto S. Sebastiano, vicino alle Terme di Caracalla. Fu probabilmente in questa occasione che i fedeli romani sentirono parlare per la prima volta della lontana città di Wadowice, alla quale accennava il cardinal Wojtyla nella sua omelia, e dove si sarebbero svolte, il 18 febbraio 1968, le celebrazioni per il passaggio della miracolosa immagine della Madonna di Czestochowa.

SACRUM POLONIAE MILLENIUM

Un anno importante per i Polacchi, questo 1968, anno in cui continuavano le celebrazioni del millenario della Polonia cattolica, battezzata, come è noto, insieme con il suo principe Mieszko I, nell'anno .
Durante i primi festeggiamenti di questo Millenario, che cadeva precisamente nel 1966, Wojtyla scriveva un poema dal titolo «Veglia pasquale 1966» (pubblicato in Italia dalla Libreria Editrice Vaticana, insieme con le altre poesie, nel volume «Pietra di luce», ).
Il poema s'incentra sulla figura di Mieszko I, che sente il battesimo, ricevuto assieme al suo popolo, come una «lacerazione» aperta dal santo innesto della cristianità. Questo primo sovrano cattolico della storia polacca sa che l'albero innestato è più prezioso perché dona più frutti, eppure molte incertezze gli si fanno incontro; ma agli interrogativi del dubbio arrivano presto le risposte:

...Nella storia il corpo umano muore più
spesso e muore prima dell'albero.
Perdura l'uomo oltre la soglia di morte
nelle catacombe e nelle cripte.
Perdura l'uomo che se ne va in tutti
quelli che vengono dopo di lui.
Perdura l'uomo che viene in tutti quelli
che prima se ne andarono.
Perdura l'uomo di là da ogni partenza o
venuta
in sé
e in Te.

La storia degli uomini come me cerca
il Corpo che Tu darai loro.
Nella storia ciascuno perde il suo corpo
e s'avvia ad incontrarTi.
Nell'istante della partenza ciascuno è
più grande degli eventi di cui
egli fu minima parte (scheggia di un certo secolo
o schegge di due secoli, riunite in una vita)...

Si sente qui assieme alla voce del pastore di Cristo, anche quella del filosofo del personalismo, per il quale il passato, sempre palpabile, pulsante di sangue vivo, partecipa, prima di tutto, alla formazione delle anime, nel grande cammino mai interamente compiuto ma sempre da compiersi, che guida l'umanità verso Dio. La prospettiva dell'eternità domina sempre, nella storia, sull'ordine temporale, e nello spazio in cui s'incontra l'uomo con il Creatore nasce il senso morale-religioso dell'eternità. Molte volte ancora il poeta tornerà a queste considerazioni, quando rifletterà sul suo popolo, sulle vicende della Polonia, su tutta la collettività umana, infine: quando, pieno di sollecitudine, si rivolgerà al mondo odierno, il mondo incantato dalle scoperte scientifiche e tecnologiche, il mondo assediato dalle ideologie politiche, che sempre più sembra aver perso la coscienza della prospettiva dell'eternità.
Nei testi degli esercizi spirituali, da lui condotti in Vaticano e raccolti in Italia nel libro «Segno di contraddizione» (ed. Vita e Pensiero, Milano, 1977) troviamo:

«Quando noi polacchi del XX secolo pensiamo al nostro passato, a quello che dovevano pensare i nostri padri nel secolo scorso, nel periodo della spartizione della Polonia, questa riflessione rileva non soltanto i cosiddetti errori politici compiuti nella storia, ma soprattutto i peccati, le nostre colpe morali. «I padri mangiarono uva acerba, e sono rimasti allegati i denti dei figli» (Ger. 31,29; Ez 18,2). L'opera di riparazione e di ricostruzione iniziava da un «esame di coscienza nazionale», come si fa in ogni confessione. Anche ora, quando guardiamo alle sorti del nostro continente dopo la seconda guerra mondiale, affiorano analoghe riflessioni e conclusioni. Ci sembra che non sarà possibile identificare fino in fondo quella che viene spesso chiamata «crisi della Chiesa» in Europa, se non si penetrerà nei vari periodi della storia e non si decifreranno incrostazioni che i peccati (problemi sociali, colonialismo, imperialismo) hanno lasciato; occorre forse anche applicare fino ad un certo punto l'analogia del subconscio umano, della cattiva coscienza, come fanno nell'antropologia e nell'etica diversi pensatori contemporanei».

La storia sarebbe dunque storia delle coscienze; una curiosa panoramica di bene e di male. In una delle più belle poesie dedicate alla patria, scritta nel 1974, leggiamo:

Pensando patria, ritorno verso l'albero...

1. L'albero della scienza del bene e del male sorgeva in riva ai fiumi della nostra terra, esso crebbe con noi nei secoli, affondò nella Chiesa le radici delle coscienze.
Portammo frutti opulenti e pesanti. Sentimmo il profondo spacco del tronco, benché le radici s'intrecciassero in un unico suolo...
La storia stende sopra la lotta delle coscienze uno strato di eventi. In questo strato vibrano vittorie e sconfitte. La storia non le ricopre, anzi le fa risaltare. (...) Può andar la storia contro la corrente delle coscienze?

2. In quale direzione si protendono i rami del tronco? In quale direzione le coscienze? Ed in quale direzione la storia della nostra terra? L'albero della scienza non conosce confini.
Un solo confine, la Venuta che in un Corpo unirà le lotte delle coscienze ed il mistero degli eventi - e muterà l'albero della scienza in una Fonte, sempre più copiosa, di Vita.
Ogni giorno, intanto, porta lo stesso spacco nel pensiero e nell'atto, da cui la Chiesa delle coscienze cresce sulle radici della storia.

Tutti questi frammenti degli scritti di Karol Wojtyla, finora citati, tratteggiano, in qualche modo, il suo pensiero storico, dal quale non possiamo prescindere se vogliamo comprendere la personalità profondamente religiosa del futuro Papa; come pure non possiamo ignorare i suoi discorsi pronunciati durante la celebrazione millenaria del cristianesimo in Polonia, se vogliamo comprendere la sua attenzione per la storia dell'uomo, passata e presente.
Il presente, si sa, non è stato mai facile.
Anche le celebrazioni del Millennio in Polonia lo dimostrano: esse si svolsero in un'atmosfera tesa, per le diversità di opinioni tra la Chiesa ed il Governo sul significato dei festeggiamenti. La Chiesa celebrava la chiusura della Grande Novena che per dieci anni era stata esaltata in riconoscenza per la grazia della fede ricevuta; nello stesso tempo, il 3 maggio 1966, a Jasna Góra (Czestochowa) veniva celebrato il voto fatto alla Madonna, secoli prima, dal re Jan Kazimierz (Giovanni Casimiro). Il primate di Polonia, cardinale Wyszynski, con tutto l'episcopato offriva «tutto il gregge alla materna schiavitù della Madonna per la libertà della chiesa nel mondo ed in Polonia». Ancora una volta la Madre di Dio veniva onorata come regina e patrona del popolo polacco. La sua immagine una copia del quadro di Jasna Góra consacrata da Pio XII - veniva portata in processione in tutte le diocesi dove, ogni volta, si ripeteva l'atto del voto.
Il corteo che accompagnava il quadro giunse a Cracovia nella tarda sera del 6 maggio 1966. Il futuro successore di Pietro, veneratore di Maria, instancabile pellegrino sui sentieri di Calvaria (ricordate la Kalwaria Zebrzydowska, descritta all'inizio del nostro libro?), pronunciava queste parole con umiltà:

«Ti offro in dono, o Madre, io, Pastore della chiesa di Cracovia, tutta questa chiesa, oggi e nel futuro. Se diverrà Tua proprietà, allora, malgrado tutti gli ostacoli e tutte le difficoltà, il Cristo durerà e crescerà dentro di noi. O Madre, noi siamo il Tuo podere, Tu la nostra fiducia. Accogli, come Tuo bene, la nostra infinita fiducia».

Il giorno dopo si svolgeva, nella Cattedrale, la sessione scientifica, pubblica, dedicata al Millennio, alla presenza dell'episcopato. Il Metropolita dedicava il suo discorso al Principe Sapieha ed alle vicissitudini dei sacerdoti durante l'ultima guerra mondiale. La figura di Sapieha veniva accostata a quella del «Principe costante» di Calderón della Barca, ed a tal proposito venivano citate le parole dello scrittore spagnolo: «Non contro le leggi dello spirito lo schiavo deve obbedire al padrone»; una massima cui si ispirava, in quei tempi ostili, il pastore di Cracovia.
Tengono i loro discorsi anche l'arcivescovo di Wroclaw, mons. Kominek (sui legami tra Cracovia e la Slesia, negli ultimi due secoli); il prof. Adam Vetulani (sul contributo dell'arcidiocesi alla cultura nazionale); il prof. Marian Plezia (sull'aspetto medioevale di un tale contributo), ed infine il rev. Alfons Schletz (sul ruolo della beneficenza nei secoli).
Le celebrazioni del Millennio assorbiranno ancora per molto tempo il nostro Metropolita, che continuava a spostarsi, instancabile come sempre, da una parte all'altra della Polonia, sempre pronto alla preghiera nella comunità del popolo di Dio, e sempre disponibile al servizio pastorale.

RESPONSABILITÀ CRESCENTI

Intanto gli venivano offerti nuovi titoli, nuove dignità e con esse... nuovi obblighi. Nel 1966 viene chiamato a far parte della Pontificia Commissione per il matrimonio e la famiglia, e poi, nel 1967, del Pontificio Consiglio per le Chiese Orientali. Nel 1970 farà parte della Sacra Congregazione per i Sacramenti ed il Culto Divino.
Mons. Wojtyla partecipò a tutte le sessioni del Sinodo dei Vescovi svoltesi a Roma, ad eccezione della prima, quella del 1967, divenendone una figura di primo piano. Invitato personalmente da Paolo VI, individualmente e non quale delegato dell'Episcopato, partecipò alle sessioni dell'anno 1969, e si manifestò come fervido sostenitore della collegialità del potere della Chiesa e del suo pluralismo culturale; precisò in che cosa doveva consistere questa collegialità, cosa che, essendo oggi divenuto egli stesso il massimo rappresentante della Chiesa, acquista un valore particolare:
«Tutto questo si svolge in una duplice dimensione. In primo luogo attraverso il dialogo dei Vescovi fra di loro e delle conferenze episcopali, che sono condotte nello spirito del servizio proprio della diaconìa del primo cristianesimo. Questo deve essere necessariamente un dialogo e non una supremazia delle opinioni degli uni sugli altri. In secondo luogo, attraverso la cooperazione con il Santo Padre, si deve sviluppare sotto il duplice aspetto ascendente e discendente contemporaneamente: cum Petro e sub Petro.
L'aspetto ascendente si realizza attraverso la partecipazione attiva nella preparazione dei provvedimenti papali, il che dovrebbe accadere molto spesso.
L'aspetto discendente consiste nell'accettare le disposizioni impartite dal Santo Padre autonomamente - sia per tutta la Chiesa, sia per le Chiese particolari, il che può aver luogo di tanto in tanto. Sviluppare la dottrina e la pratica della collegialità è una cosa di estrema importanza.
Il Sinodo dei Vescovi del 1971 era dedicato a due problemi: al sacerdozio ministeriale e alla giustizia nel mondo, come erano intitolati i documenti delle riunioni. Nella discussione circa il sacerdozio ministeriale e sacramentale, il Metropolita di Cracovia difese il principio del celibato dei preti, non divergendo in ciò dalla maggioranza dei partecipanti. Quando invece venne trattato il problema della giustizia nel mondo contemporaneo, il futuro papa, stigmatizzando coraggiosamente tutte le manifestazioni e le situazioni che ne sono la negazione, espose, del resto non per la prima volta, la tesi secondo la quale la libertà delle coscienze e della religione è un elemento inseparabile da ogni giustizia sociale e politica, e ne è la testimonianza. Nello stesso Sinodo il Vescovo di Cracovia fu scelto come uno dei dodici membri del Segretariato del Sinodo, carica che, eletto nuovamente, mantenne nelle sessioni dei due Sinodi successivi.
La sua autorità cresceva. Durante il Sinodo del 1974 il Cardinale Wojtyla fu tra i relatori; in quel periodo prese la parola intorno alle questioni teologiche legate all'evangelizzazione nel mondo contemporaneo. Svolse anche un ruolo importante durante il Sinodo del 1977, che fu dedicato ai problemi della catechesi dei bambini e dei giovani. Potremmo affermare che nel Sinodo dei Vescovi, di cui in quegli anni fu segretario generale il Vescovo Ladislao Rubin, oggi Cardinale, la Chiesa tutta vide finalmente in pieno, nel Metropolita di Cracovia, ciò che aveva cominciato a notare durante il Concilio: la singolarità della persona, le sue straordinarie doti di uomo di fede, di pastore, di intellettuale ed infine di organizzatore del lavoro ecclesiastico.
Papa Paolo VI seppe apprezzarlo. Sono noti gli sforzi del Metropolita di Cracovia legati all'Enciclica «Humanae vitae», che ha suscitato controversie in molti ambienti: in quella Enciclica il Santo Padre Paolo VI, facendo presente l'ideale cattolico del matrimonio e della famiglia, si espresse in modo deciso contro il divorzio e la limitazione artificiale delle nascite. Il Cardinale Wojtyla, essendo a Roma in quel periodo, ad limina apostolorum, rese note al Santo Padre le posizioni della Chiesa polacca circa il documento e, subito dopo, su invito di Paolo VI, collaborò, insieme con i teologi moralisti di Cracovia, alla stesura del «Commento teologico pastorale alla Humanae vitae», pubblicato prima sulle «Notificationes» e stampato più tardi in un volume a parte, a Roma (1969). Inutile rilevare l'importanza che rivestiva tale «Commento», che fu scritto quasi interamente dalla stessa penna di «Amore e responsabilità», libro che del resto anticipava i contenuti dell'Enciclica e proprio allora veniva tradotto in lingua italiana e spagnola. L'erudito cardinale polacco riscuoteva dunque stima quale esperto della problematica morale.

ATTIVITÀ SCIENTIFICA

Libero dalle tentazioni del rinnovamento sensazionale, Wojtyla seguiva invece diligentemente, nelle proprie riflessioni, i contenuti del Vangelo.
Lo assorbiva molto l'attività scientifica. Parte delle sue 392 pubblicazioni sono costituite da saggi, monografie e studi scientifici in diverse lingue, prima della sua ascesa al trono di Pietro. Nello stesso 1969 fu pubblicato il libro «Persona e Azione». Secondo le affermazioni dello stesso autore, questo libro, come anche uno successivo, «Alle basi del rinnovamento», è legato ai lavori del Concilio Vaticano II e in particolare ai lavori della commissione che preparava la Costituzione sulla «pastorale della Chiesa nel mondo contemporaneo», della quale il metropolita di Cracovia faceva parte, come già sappiamo. Di che cosa parla il libro? Esso fonda lo studio della persona attraverso l'atto, conducendo un'analisi psicologica ed etica dell'evolversi della persona stessa, cioè della formazione e manifestazione della sua essenza come risultato delle azioni umane consapevoli.
«Divenire» dice l'autore, è quello che in latino intendiamo con la parola «fieri»; attraverso tale termine possiamo capire l'uomo stesso quale soggetto di dinamismo.
Il concetto di «divenire» definisce il carattere della morale della persona, il genere della sua umanità, il grado della libertà e delle dipendenze dal mondo, e la struttura del suo legame sociale con le altre persone. Perché tale processo possa raggiungere la pienezza, non può fare a meno del fattore trascendente, che propriamente dirige la persona verso valori veri, che vi innesta gli ideali dei doveri e delle responsabilità, protegge da ogni azione istintiva, spontanea, depauperizzante.

FENOMENOLOGO TOMISTA

«Persona e azione», libro basato su concezioni personalistiche, mostrando atteggiamenti autenticamente umani e sottolineando in essi il ruolo della coscienza si rivela contro l'individualismo e contro il totalitarismo: fenomeni che non permettono l'integrazione della persona con l'atto, e per ciò stesso devono essere considerati negativamente. Tale studio è un'esaltazione della persona realizzantesi si nell'atto, ma in mezzo agli altri, nella comunità umana. In quanto personalista l'autore indica spesso che la persona si realizza in modo duplice: immanente, rivolgendosi al profondo della propria essenza e là realizzando il fieri; ma pure in maniera comunitaria, cioè attraverso i legami con altre persone. L'elemento di questo manifestarsi comune della persona è molto rimarcato nella riflessione antropologica del filosofo Wojtyla, considerato come personalista oppure come un fenomenologo tomista, come qualche volta viene definito. La questione della comunitarietà sembra essere per lui una categoria che si svincola dalle strette normali del tempo e che perdura oltre la vita terrestre della persona.
Ad avallare questa opinione può servire un frammento dell'articolo commemorativo sul prof. Wicher. Desidero citarlo per evidenziare meglio in che modo all'attività scientifica del Metropolita di Cracovia si univa quella di animatore e organizzatore, pur trattando, quel frammento, della scienza come creazione, oltre i valori suoi propri dei legami interpersonali e multitemporali:
«Quando si tratta della Facoltà Teologica dell'università Jagellonica - scrisse nel 1970 il futuro papa; ultimo docente nella storia di questa facoltà, che dopo è stata chiusa - bisogna pensare in modo storico. Tutte queste generazioni di professori, scienziati ed insegnanti, sono in essa presenti non solamente in base alla formale successione delle discipline e delle Cattedre, ma anche in base al vivificante ereditare e trasmettere. La scienza è un bene che viene trasmesso ed ereditato. E questo accade non esclusivamente attraverso le cose, ma anche attraverso le persone; non solamente attraverso i libri e le dispense, ma anche nella trasmissione e capacità di ricezione fra persone vive. La tradizione che si tramanda produce le genealogie degli scienziati, tra i quali si crea un legame simile a quello del sangue, una procreazione spirituale legata all'atteggiamento verso la scienza.
Ogni scienziato trasmette ad un altro una parte della sua anima; il retaggio delle suggestioni è, spesso, l'orma dell'itinerario difficile e complicato che ha percorso per arrivare alla verità.
Nello stesso tempo lo scienziato osserva in quale punto del suo bagaglio d'esperienza spunterà un nuovo germoglio, spesso diverso, generato da altre suggestioni e da metodi nuovi. La genealogia degli scienziati vive nell'ambiente della scienza e lo caratterizza».
Ma quale fu l'attività di animatore e organizzatore del Metropolita in campo scientifico? Il futuro papa partecipò, con particolare assiduità, a tutti i congressi dei teologi polacchi del dopoguerra (1958, 1966, 1971, ), dei quali l'ultimo, quello di Cracovia, si svolse sotto la sua protezione, nell'affascinante cornice dell'abbazia dei cistercensi a Mogila, e si iscrisse nella storia come il più significativo e brillante. Il fatto è che raccolse circa settecento scienziati fra polacchi e stranieri.
Per iniziativa del Metropolita si svolsero a Cracovia diversi incontri scientifici, quali, ad esempio, la sessione già ricordata in occasione del Millennio, come pure un'altra dedicata a San Stanislao Vescovo e Martire; poi un simposio teologico-filosofico sul problema dell'interpretazione dei dogmi; un simposio sugli aspetti specialistici dell'interruzione della gravidanza, al quale intervennero circa duecento tra medici, docenti di medicina pastorale e moralisti; un simposio dedicato a un noto psichiatra e umanista, Antonio Kepinski.
Si tennero anche incontri di carattere scientifico del tutto privati, o nel Palazzo Arcivescovile o nelle case amiche; il futuro papa amava la compagnia di scienziati, artisti, scrittori, fra cui i più vari specialisti sia laici sia appartenenti al clero.
Erano spesso presenti: lo storico della letteratura polacca, Stanislao Pigon, antico professore di filologia dello studente Wojtyla; il fisico di fama mondiale Enrico Niewodniczanski; l'ematologo prof. Julian Aleksandrowicz; il professor Antoni Kepinski; lo storico Enrico Wereszycki; lo storico del diritto Adamo Vetulani; l'economista Eduardo Lipinski; il filosofo Stefano Swiezawski, e ancora Kotlarcyk, il giornalista Turowicz, molti scrittori...
Spesso il Metropolita di Cracovia partecipava ai convegni scientifici internazionali; a volte invece, nell'impossibilità di essere presente, per mancanza di tempo, inviava solo delle relazioni, come, ad esempio, per il Colloquio Internazionale sulla Fenomenologia, organizzato nel 1975 dalla Société Internationale pour l'Étude de Husserl et de la Phénoménologie.
Come studioso il futuro papa è stato onorato da diverse università, come quella di Gutenberg a Magonza, dove nel 1977 ricevette il titolo di dottore Honoris Causa. Nel viaggio era accompagnato dal Rev. Rettore Krapiec, di Lublino, e da Mons. Franciszeck Macharski, allora rettore del Seminario Teologico Metropolitano di Cracovia ed attualmente, come è noto, Cardinale e Arcivescovo, successore di Wojtyla a Cracovia.
Nel documento di motivazione delle autorità dell'Università di Magonza leggiamo: «Ha interpretato fenomenologicamente, ed ha sviluppato, il concetto del personalismo cristiano, indicando nuove vie metodologiche all'etica cristiana, indicando anche l'intangibile dignità della persona umana, attraverso un'originale prova antropologica, filosofica e teologica, facendo ciò in modo convincente ed apportando così al moderno dibattito teologico-morale delle norme e dei valori fondamentali, un contributo con cui gli altri devono confrontarsi».

LA PROFEZIA DEL PROFESSORE

Il congresso scientifico internazionale che si svolse nell'aprile del 1974 in occasione del settecentesimo anniversario della morte di San Tommaso d'Aquino fu definito (scherzosamente) «il congresso del Cardinale Wojtyla». Gli incontri si svolsero a Roma, presso l'Angelicum e a Napoli. Il Cardinale fu l'unico porporato membro del Comitato d'onore del Congresso e tenne, alla presenza di mille e cinquecento partecipanti, una relazione intitolata: «La struttura personale dell'autodecisione». A Fossanova, dove morì San Tommaso, pronunciò un'omelia.
La personalità del Metropolita, la sua cultura religiosa, l'erudizione e la disinvoltura con la quale si muoveva in campo scientifico, la sua immediatezza, il tatto e la spigliata conversazione, affascinarono tutti. E fu proprio allora che il professor Swiezawski, presente al congresso, spinto forse da una visione profetica, amichevolmente gli disse: «Sarai Papa».
Udendo questo il Metropolita, come ricorda il professore, «mi guardò negli occhi con molta serietà, senza rispondere».
Eppure il cardinale ricorderà queste parole: «Così è, caro Stefano», gli scrisse, ormai divenuto Giovanni Paolo II, «mi tornano alla mente le tue parole, pronunciate a Fossanova durante il congresso in onore di San Tommaso. Deus mirabilis!»

IL VIAGGIO NELL'ALTRO EMISFERO

Wojtyla ha sempre viaggiato molto e per tutti i continenti.
Il 28 agosto 1969 partì per il Canadà, invitato dall'Episcopato canadese e dal Congresso per l'immigrazione polacca che celebrava il venticinquesimo della sua istituzione.
Tre settimane dopo partiva per gli Stati Uniti, dove si trattenne due settimane, invitato, questa volta, dai polacchi di Pittsburg, appoggiati nell'iniziativa dal Cardinale John Wright, già Vescovo ordinario di questa città e, nell'anno della visita del Card. Wojtyla, prefetto della Congregazione per il Clero e residente a Roma: quello stesso Cardinale Wright che sarebbe arrivato al Conclave di ottobre quasi direttamente dalla sala operatoria, e vi avrebbe partecipato pur nell'impossibilità di muoversi.
Il viaggio nell'altro emisfero fu intrapreso insieme al Cardinale Sczepan Wesoly, al reverendo Francesco Macharski, allora professore in seminario, e con il cappellano don Stanislao Dziwisz.
Durato quarantaquattro giorni, si snodava, specialmente negli Stati Uniti, attraverso le città la forte emigrazione polacca. In Canadà il Cardinale Wojtyla passò in veste ufficiale, come rappresentante dell'Episcopato polacco; negli Stati Uniti invece, il viaggio ebbe carattere privato. Ma in entrambi i casi, la rapidità degli spostamenti rifletteva lo stile americano: dalla macchina all'elicottero, dall'elicottero all'aereo e così via, percorrendo migliaia di chilometri e partecipando a numerosissime celebrazioni religiose, a incontri nei centri di emigrazione e, infine, a ricevimenti durante i quali i sindaci consegnavano al Metropolita, secondo l'uso americano, le chiavi simboliche delle loro città.
Toronto, Montreal, Winnipeg, Edmonton, ecco le tappe principali di questo viaggio pastorale. Il Metropolita fu ricevuto dal Cardinale Maurice Roy, Arcivescovo di Québec e presidente del Consiglio dei laici, al quale partecipava, come abbiamo scritto, «il venuto dalla Polonia». Numerosi furono gli incontri con i rappresentanti della Chiesa canadese, ma quelli che lasciarono un'impronta di indicibile entusiasmo, furono gli incontri con i Polacchi, alcuni solo d'origine, non avendo mai messo piede sulla terra degli avi. Durante la permanenza a Montreal cadeva l'anniversario dell'inizio della seconda guerra mondiale e il Cardinale, nel corso di un'omelia, sottolineò l'importanza della lingua e della cultura polacca quali elementi essenziali per mantenere i legami con la patria. A Toronto, per la stessa occasione, parlò dei legami tra la cultura polacca e il cristianesimo.
«Questa verità sulla nazione, disse allora, mi viene confermata, in modo particolare, durante questa visita all'emigrazione polacca in Canadà...
La Chiesa, nei nostri tempi, vuole continuare ad essere, come è stata sempre, al servizio dell'identità polacca e vuole servire alla formazione della nostra cultura. Essa si esprime anche attraverso l'esperienza religiosa. E l'esperienza religiosa è specifica, irripetibile. In essa tocchiamo lo strato più intimo dell'anima umana e dell'anima polacca. È significativo parimenti che i primi polacchi venuti in questa terra furono i Kaszubi. Appena arrivati, costruirono la chiesa nella città chiamata Wilno, e tutta la regione fu da essi denominata Pomerania Kaszubska.
Il loro gesto venne qui in seguito considerato come una protesta contro la politica detta 'Kulturkampf'; si stabilirono qui, in terra straniera, per difendere i valori più profondi del proprio animo ed esaltare la propria cultura».
Da Cracovia erano state portate le reliquie di San Stanislao Vescovo, di San Giacinto e di San Giovanni Kanty, e vennero offerte alle parrocchie polacche. Ad Edmonton, la capitale del grano e del petrolio, nel passato prima meta dell'emigrazione polacca, avvenne un incontro inconsueto: da Pisilberry, centro lontano seicento chilometri, vennero dei contadini per domandare un prete polacco per la loro parrocchia.
E non è ancora tutto: ad Edmonton fu inaugurato un monumento dedicato ai pionieri polacchi, per festeggiare in questo modo sia il millenario del battesimo della Polonia, sia il centenario del Canadà.
Vi fu un'escursione sulle Montagne Rocciose; tutti, nell'occasione portarono i bianchi cappelli da cowboys.
E poi, gli Stati Uniti.
A Buffalo, vicino al famoso Ponte della Pace, sul Niagara, il Metropolita fu accolto con fiori bianchi e rossi, con il pane e il sale. In questa città, abitata da quasi trecentomila polacchi, una delle parrocchie, quella di San Stanislao Vescovo, ha innalzato, all'interno della chiesa, una lapide-ricordo in onore dei caduti durante l'Insurrezione di Varsavia (1944). Il futuro papa la benedisse nel corso di una cerimonia solenne, dicendo che essa avrebbe qui ricordato quanti 25 anni prima lanciandosi nella lotta per la liberazione della patria proprio nella capitale Varsavia avevano immolato sull'altare di quella patria, la vita e le loro migliori speranze. Il viaggio sarebbe stato pieno di momenti patriottici come questo.
Cleveland, Hartford, Pittsburg, Chicago, Detroit, Boston, Doylestown, New York.
Una gradita sorpresa stupì piacevolmente gli ospiti polacchi: il ricevimento nella Czestochowa di Doylestown, una sede moderna e grandiosa tenuta dai Paolini. Lì avvenne l'incontro con Jan Król, Cardinale di Filadelfia, nella cui diocesi si trova questa Czestochowa, segno del ricordo del Vecchio Paese e di venerazione per la Regina Polonorum.
Il Cardinale Król, primo americano di origine polacca insignito di tale titolo nella Chiesa di oltre oceano, ricevette il Cardinale Metropolita con un particolare calore. Dopo sette anni lo inviterà di nuovo ad un Congresso Eucaristico, tenuto a Filadelfia.
Ma prima di partecipare a questo, il nostro Metropolita interverrà ad un altro Congresso Eucaristico, quello di Melbourne.
Il Cardinale Wojtyla in visita in Australia

MELBOURNE

Il Congresso durò dal 18 al 25 febbraio del ; ma il Cardinale Wojtyla preferì partire già agli inizi di febbraio. Lo accompagnavano il Vescovo Wesoly e il Cappellano Dziwisz. Lungo il viaggio fecero tappa a Manila, nelle Filippine, nel ricordo del Principe Metropolita di Cracovia Sapieha, il quale trent'anni prima aveva partecipato qui al Congresso Eucaristico: il suo viaggio per nave era durato allora mezzo anno!
In Nuova Guinea, la tappa successiva, i nostri viaggiatori furono ricevuti dai missionari polacchi della Congregazione dei Verbiti; non mancò un saluto alle Suore polacche della Congregazione delle Serve dello Spirito Santo. I tre sacerdoti visitarono anche i centri dei Papua, donando ai bimbi le immagini della Madonna di Czestochowa.
E dopo... l'Australia: Brisbane, Sydney, Canberra, Melbourne, Adelaide, Perth. Lunghissimo itinerario che attraversò quasi tutto il continente, toccando città famose e oasi sperdute dell'emigrazione polacca.
Questo viaggio pastorale assumeva un aspetto incredibile quando si vedevano, sotto il cielo tropicale, bambini vestiti con i costumi popolari di Cracovia, e quando, fra il brusio delle lingue diverse, irrompeva il canto nostalgico dei vecchi polacchi; li consolava il Metropolita con parole simili a quelle pronunciate a Sydney:
«Son qui per sentirmi tutt'uno con l'emigrazione. La vostra strada è la strada della nostra storia: una strada comune.
Il popolo scrive questa storia nel proprio paese, ma anche, a volte, fuori di esso. Dalle spartizioni della Polonia è cominciata, in fondo, l'ondata dell'emigrazione. Kosciuszko e Pulaski hanno reso celebre il nome della nostra Patria comune, combattendo per la nostra e vostra libertà, e a noi lasciano questa missione, che tanto è costata e che costa ancora.
La paghiamo con l'emigrazione, con la guerra, con l'esilio, con i campi di concentramento, portando là, dove il destino ci spinge, il nostro primo amore e, per questo, non sbiadito dal tempo: l'amore per la Polonia».
A Sydney una vecchietta centenaria, raccontò che era stata in Polonia per l'ultima volta settant'anni prima! A Canberra i combattenti della seconda guerra mondiale consegnarono al Cardinale un'immagine della Madonna, fatta con le schegge metalliche delle pallottole tolte dalle loro ferite, con la preghiera di portarla nella nuova chiesa di Nowa Huta. Preghiera presto esaudita.
Per rendere visita a connazionali ivi residenti i nostri pastori fecero tappa anche in Tasmania e in Nuova Zelanda.
A Hobart, la più grande città della Tasmania, accanto agli ex-soldati della famosa Brigata dei Carpazi, fecero bella mostra di sé i piccoli scouts polacchi.
A Wellington, capitale della Nuova Zelanda, gli ospiti poterono ammirare un tipico presepio polacco, e, cosa forse più importante, il Primo Ministro consegnò al Metropolita un pastorale di fattura artigianale. Il Congresso Eucaristico di Melbourne si svolse sotto il segno dell'ecumenismo, della problematica missionaria e della pastorale familiare. Gli occhi di tutti si rivolgevano verso una strana suora, minuta, secca, con il volto solcato da rughe: Madre Teresa di Calcutta, con la quale il futuro papa si incontrerà anche durante il congresso di Filadelfia.

FILADELFIA

Svoltosi dal 1° all'8 agosto 1976 questo Congresso vide il Cardinale Wojtyla a capo di una delegazione polacca composta da diciotto persone, la più numerosa tra tutte le delegazioni episcopali straniere. Tema del Congresso: «L'Eucarestia e le 'fami' della Famiglia Umana». Una giornata di studio, poi, questa grande Assemblea religiosa fu dedicata alla «Fame di libertà e di giustizia». Il Metropolita di Cracovia presiedette, allora, la «S. Messa Polacca» concelebrata nello stadio dei Reduci a Filadelfia; all'omelia parlò a quarantamila persone. Dopo la Messa consegnò, in modo solenne, al Cardinale Król, organizzatore del congresso, un'urna contenente terra polacca raccolta a Warka, località non lontana da Varsavia, dove nacque Casimiro Pulaski, soldato iscrittosi eroicamente nelle pagine della storia americana.
Con l'occasione i Vescovi polacchi rimasero un mese in America, visitando, dopo il Congresso, molti centri di emigrazione.
Ad Orchard Lake, «il più bel seminario polacco del mondo»u organizzata una conferenza di tre giorni, dedicata ai problemi della pastorale e della collaborazione dell'emigrazione polacca con la Chiesa in Polonia. Proprio qui il Metropolita di Cracovia consegnò nelle mani del Rettore del seminario, Rev. Walter Ziemba, un'urna contenente la terra di Auschwitz e di Raclawice, cosa che fece anche il Vescovo Lech Kaczmarek, che consegnò un'urna con la terra di Westerplatte, mentre il Vescovo Kraszewski consegnava a sua volta un'urna con la terra del cimitero «na Kamionku» di Varsavia.
Il Metropolita di Cracovia svolse inoltre, in quel caldo agosto americano, opera di docente invitato dall'Università di Harward, vi tenne una Conferenza sul tema: «Alienazione e partecipazione». All'Università cattolica di Washington parlò sui «Problemi dell'autoteleologia dell'uomo», e all'Università di Stevens Point sulla «Situazione della Chiesa cattolica in Polonia».
Fu allora che il Cardinale toccò le rive del Pacifico a Los Angeles e a San Francisco. Un grande incontro con i rappresentanti delle organizzazioni polacche concluse, a New York, il soggiorno negli Stati Uniti; incontro organizzato dalla Fondazione Kosciuszko e dal suo preside prof. Eugenio Kusielewicz, sempre aperto a chiunque arrivasse dalla Polonia.
Non possiamo non ricordare ancora due viaggi all'estero del Cardinale.

IL PELLEGRINAGGIO DEI SACERDOTI IN «TUTE RIGATE»

Il primo si svolse in occasione del Giubileo d'oro del sacerdozio di Paolo VI e nel venticinquesimo anno della liberazione dei campi di concentramento hitleriani; nel maggio del 1970, il Metropolita giunse a Roma con un gruppo di duecento sacerdoti, ex-prigionieri dei campi. Durante il viaggio il gruppo fece sosta a Gusen, Mauthausen e Dachau. A Monaco, nelle cui vicinanze si trova Dachau, il più grande campo di sterminio di sacerdoti portati là da tutta Europa (vi sono morti ottocento preti polacchi), i pellegrini vennero accolti dal Cardinale Julius Doepfner. Ma si avvertiva nell'aria una certa freddezza da parte dei tedeschi nei confronti di questi sacerdoti vestiti con la tuta a righe dei prigionieri; furono infatti quasi assenti all'incontro iniziale, per cui un ex-prigioniero, il Vescovo Casimiro Majdanski, pronunciò con rammarico queste parole: «Evidentemente preferiscono non ricordare».
Su che cosa poteva riflettere allora il Metropolita di Cracovia? Non aveva conosciuto personalmente i campi di sterminio, ma sapeva bene che cosa era la guerra, che cosa erano l'occupazione, le persecuzioni, l'inferno dei campi. Il fumo che usciva dai forni crematori di Auschwitz, così vicino a Cracovia, quasi palpabile nella sua diabolica densità, aveva occupato più d'una volta i suoi pensieri e ne colpiva la sensibilità morale, vero disonore di duemila anni di civiltà.
«La parola Oswiecim, disse il futuro papa, in una trasmissione della Radio Vaticana, durante il Concilio Vaticano II, che gli stranieri conoscono come Auschwitz, contiene in sé non solo l'espressione della morte fisica di milioni di persone indifese, ma anche l'espressione della morte morale. È un luogo, questo, uno dei tanti luoghi nella storia, dove l'umanità ha toccato il fondo della sua bassezza. Luogo dove l'uomo ha mostrato all'umanità il massimo del disprezzo e della bestialità nei confronti degli altri uomini; e questo avvenne perché cedette alla pressione bruta di un sistema, nel quale, fin dall'inizio, l'uomo e i suoi innegabili diritti non contarono più».
A Dachau i sacerdoti pellegrini percorsero la «Via Crucis».
A Roma furono accolti da Papa Paolo VI durante un'udienza particolare e ascoltarono, nella Basilica di San Pietro, l'omelia del Metropolita di Cracovia, dettata dalla circostanza; presero successivamente parte ad una Messa celebrata dal Santo Padre, in occasione della solennità del Corpus Domini, in una Chiesa di periferia.
Durante l'udienza i sacerdoti offrirono al Santo Padre un dono eccezionale: un calice in miniatura realizzato nel campo di Auschwitz e, sempre una miniatura, il «Messale di Oswiecim», rilegato in lignite e carbon fossile rinvenibile a Konin in Polonia. A loro volta ricevettero dal Papa i messali postconciliari ed ebbero il privilegio di impartire la benedizione apostolica.
La città eterna risuonò in quei giorni dei loro numerosi canti, come era accaduto anche a Monte Cassino, dove, nonostante una pioggia torrenziale, si svolse una Messa concelebrata, a ricordo dei soldati qui sepolti che sembravano ancora chiedere il perché del loro sacrificio.
Wojtyla celebra la messa a Brooklyn

LA VISITA NELLA GERMANIA FEDERALE

Il secondo viaggio di cui vogliamo qui accennare è quello compiuto tra il 20 e il 25 settembre del 1978. Un mese prima della sua elevazione alla Sede Apostolica, il Metropolita di Cracovia insieme al Primate di Polonia Cardinale Stefano Wyszynski, a Mons. Stroba, oggi Arcivescovo di Poznan, a Mons. Ladislao Rubin, oggi Cardinale, con il Sac. Orszulik fece parte della delegazione ufficiale dell'Episcopato polacco che, su invito della locale Conferenza Episcopale, si recò nella Repubblica Federale di Germania, per ricambiarne la visita.
«Gli scopi di questa missione, osservò il Primate alla vigilia della partenza, non sono politici, ma esclusivamente religiosi, quanto mai religiosi. Andiamo alla Conferenza dell'Episcopato tedesco, a Fulda, presso il sarcofago di San Bonifacio, l'apostolo della Germania, in nome della Madre di Dio, partendo dal sarcofago di S. Adalberto, dalla Capitale che ha conosciuto i tormenti più atroci, nei momenti difficili dell'esperienza del nostro popolo. Insieme cercheremo di riflettere come salvare il cristianesimo in Europa, che in questi tempi si va sempre più allontanando da Dio. Che cosa fare perché i paesi d'Europa si convertano di nuovo a Cristo attraverso la Madre di Dio. Di questa Europa che fu il centro missionario dell'attività apostolica della Chiesa».
La delegazione polacca si recò così a Fulda, ed in seguito a Colonia, a Neviges, dove si trova un santuario mariano, a Monaco, Dachau, Magonza. Il Cardinale Doepfner non viveva ormai più, ma gli ospiti polacchi ebbero modo di ricordarlo con venerazione.
Furono calorosamente accolti dal Cardinale Joseph Hoeffner, Arcivescovo di Colonia e Presidente della Conferenza Episcopale tedesca. Dappertutto suscitarono un grande interesse ed i loro discorsi apparvero sulla stampa mondiale; erano venuti per riflettere in comune sul futuro del Cristianesimo in Europa, sulla collaborazione pacifica ed amichevole nella famiglia umana, ricordando il legame che una volta univa il Principe Boleslao Chrobry e l'imperatore Ottone III, non tacendo neppure sulle ingiustizie inflitteci durante i secoli. Non vennero ignorate le dolorose pagine della seconda guerra mondiale. A Dachau il Prjmate celebrò la Santa Messa pronunciando un'omelia. Sotto il Muro del Mausoleo furono deposte corone; alla Celebrazione partecipò anche l'ambasciatore polacco in Germania, Sig. Giovanni Chylinski.
Parlando nella Cattedrale di Monaco, il Metropolita di Cracovia ricordò i nomi del Beato Massimiliano Kolbe e della tedesca carmelitana scalza suor Teresa Benedicta della Croce. Tutti conoscono la vita e il sacrificio del fondatore di Niepokalanów. Il -X-71 giorno in cui fu beatificato padre Kolbe, fu una festa per tutta la Chiesa e un grande avvenimento per tutta l'umanità, per tutti coloro che riescono ad apprezzare un gesto eroico, un sacrificio che si esprime nel modo più generoso ed umano. Il Metropolita fece ogni sforzo possibile, perché il mondo ricordasse sempre quel francescano polacco che ebbe il coraggio di morire al posto di un altro uomo.
Ma chi era Suor Teresa Benedicta, menzionata con uguale stima dal Cardinale? Doveva essergli in qualche modo vicina. Non perché arrivata ad Auschwitz fu portata direttamente dai binari ai forni crematori; il volto di Suor Teresa Benedicta sembrava guardare ancora ai volumi che raccolgono le formule e le riflessioni di fenomenologia. Questa carmelitana proveniente da Wroclaw, prima di bussare alla porta del Convento, cercava la verità nei libri, nella scienza, era infatti collaboratrice del grande Husserl e collega dell'illustre Roman Ingarden. Molto la divideva ancora da Cristo: La nascita, gli slanci di una giovinezza piena di ambizioni, troppo piena di pensieri mondani, una sorta di agnosticismo. Era di origine ebrea, anche se solo anagraficamente. Quando si accese la fiamma della metamorfosi, Edyta Stein (suo vero nome) ricevette il battesimo e divenne suora. Sul suo scrittoio di studiosa, in convento, erano in evidenza i volumi di San Tommaso e del Dottore della Notte. L'intellettuale, nella clausura, fu prima di tutto una persona piena d'umiltà, bontà e sempre in preghiera. Fu arrestata perché ebrea. Citiamo il «Canto dell'Anima» di San Giovanni della Croce, poesia su cui la Suora aveva scritto un commento molto bello:

Pues ya si en el ejido
De hoy más no fuere vista ni hallalada,
Diréis que me he perdido,
que andando enamorada,
Me hice perdidiza, y fui ganada. (13)

(13) Poiché nel campo aperto / da oggi non fui più veduta né trovata / direte che mi sono perduta, / che vagando innamorata / mi volli perdere e fui guadagnata (Cantico Spirituale A-20, B-29)

IL PASTORE DELL'ARCIDIOCESI

Rimanevano ancora tanti altri impegni.
Bisognava trovare il tempo per adempiere a tutti gli altri incarichi all'interno dell'Episcopato polacco. Il Cardinale Wojtyla era infatti vicepresidente della Conferenza, membro del suo Consiglio Generale, presidente della Commissione per i problemi dell'Educazione Cattolica e di quella per i problemi dell'Apostolato dei laici, membro della Commissione per i problemi della Pastorale generale e di quella per i problemi delle Istituzioni Polacche in Roma.
Eppure principalmente c'era l'Arcidiocesi, quell'Arcidiocesi in cui aveva riposto il suo amore e a cui dedicava la normale fatica pastorale. Ma davvero era fatica normale?
Durante i quindici anni del suo governo pastorale l'Arcidiocesi di Cracovia ha vissuto molti momenti stupendi - importanti o meno - sempre segnati dalla fervida sollecitudine del Metropolita.
Ad esempio nel solo 1973, citiamo qui un anno non di particolare rilevanza, si sono avuti i seguenti avvenimenti: il settecentocinquantesimo anniversario della morte del beato Vincenzo Kablubek; il cinquecentesimo anniversario della morte di S. Giovanni Kanty; una sessione pubblica della Conferenza Episcopale; il centenario della morte del Servo di Dio sac. Gerolamo Kajsiewicz, della Congregazione dei Redentoristi; una sessione scientifica particolare in cui fu reso omaggio a Nicolò Copernico nel cinquecentenario della sua nascita; e ancora la celebrazione di un rito funebre, tenuto secondo una tradizione secolare, per la sistemazione in Cripta delle ceneri, scoperte nel corso di scavi archeologici eseguiti a Wawel, del re Casimiro Jagellone e della sua consorte Elisabetta; un simposio particolare i cui partecipanti, provenienti dall'intera nazione, discussero sui problemi legati all'interpretazione dei dogmi; la riunione della seconda sessione plenaria del Sinodo dell'Arcidiocesi; il pellegrinaggio di seicento sacerdoti al santuario di Kalwarla, in preparazione all'anno Santo che si avvicinava (1975), come pure i vari pellegrinaggi di gruppi particolari: uomini e ragazzi, donne e ragazze.
Molti ospiti furono parimenti ricevuti calorosamente a Cracovia; tra essi ricordiamo: i Cardinali Doepfner, Garrone, Raimondi, Samorè e Tabera; il Metropolita, il quale, sebbene, come sappiamo, fosse in febbraio in Australia e Nuova Zelanda e in maggio in Belgio, non di meno, non mancò di essere presente in tutte queste occasioni...
Pastore, Pastore instancabile...
Conosceva la sua chiesa di Cracovia e vigilava su di essa. Sapeva che la realizzazione del Concilio Vaticano II dipendeva, in gran parte, dai sacerdoti, dalla loro preparazione e formazione spirituale e, come presidente della Commissione Episcopale per l'educazione cattolica, dedicava sempre molta attenzione ai seminari ed agli studi teologici in Polonia. Si interessava personalmente di ogni singolo chierico, nella sua qualità di pastore dell'Arcidiocesi e di Gran Cancelliere della Facoltà Pontificia di Teologia di Cracovia. Era commovente il ricordo che conservava dei neo sacerdoti; ai quali in seguito scriveva, quasi ogni anno, lettere pastorali, legate a qualche occasione. Oltre ai chierici e ai giovani sacerdoti, si dedicava all'intera comunità sacerdotale, conosciuta e compresa da lui e mai tenuta a distanza.
Nel palazzo arcivescovile presto si dovettero assumere nuovi atteggiamenti, chiamiamoli pure popolari. Il Metropolita invitava spesso a pranzo i confratelli venuti a Cracovia per faccende burocratiche, facendoli sedere accanto ai più illustri ospiti, non di rado venuti dall'estero, i quali non mancavano mai.
Promosse anche l'elezione - dopo il Vaticano II - del Consiglio Sacerdotale, da parte di tutti i sacerdoti dell'Arcidiocesi: su trenta persone solo sei erano nominate dall'alto.
Il Consiglio prese vita con il decreto del 14 dicembre 1968, cominciando a governare, insieme con il suo capo, l'arcidiocesi, e il Metropolita partecipava ad ogni riunione del Consiglio stesso: questa doveva essere, ed è stata, l'espressione concreta della collegialità.

IN AIUTO DELLE FAMIGLIE

In quei giorni la Curia guadagnò nuovi spazi di impegno ecclesiastico: furono create le sezioni per la Pastorale Caritativa, per la Pastorale delle famiglie, ed una speciale sezione per la Pastorale dei giovani.
I problemi della famiglia, la pastorale famigliare, costituirono sempre una preoccupazione di rilievo per il Metropolita.
Per sua iniziativa nacque l'Istituto della Famiglia. In ogni decanato vennero istituiti i consultori familiari, organizzati aiuti per le famiglie numerose, svolti corsi per i giovani Sposi.
L'otto maggio 1974, anno che precedette quello del Giubileo, il Metropolita annunciò che si era pronti a dare una mano a tutte le famiglie e, con la più assoluta discrezione, a tutte le ragazze madri che decidevano di mantenere la gravidanza, anche in mancanza di condizioni favorevoli.
I fini di questa decisione tanto difficile a realizzarsi, come pure di precedenti iniziative, erano duplici. Si trattava di dare aiuto a tutte le famiglie bisognose, ma si trattava anche di incoraggiare moralmente le donne, specie se sole, che si trovavano davanti al dramma della maternità indesiderata, le quali avevano bisogno di conforto per evitare una decisione di aborto.
«La Chiesa sempre difende l'intoccabilità della vita - scriveva Wojtyla nella comunicazione che ne diede - difende ogni bambino concepito. La vita è un dono di Dio e dobbiamo circondare i bambini di amorosa protezione. Conosciamo però i casi in cui per certe famiglie o per donne sole, l'uomo concepito diventa causa di molteplici difficoltà.
Perciò andiamo incontro a coloro che ne hanno bisogno, per non permettere la tragedia del genocidio. Le difficoltà di natura medico-morale non devono costringere la madre ad uccidere la vita concepita»...
Ricordiamo le parole di Cristo: "Chi accoglierà un bambino come questo nel mio nome, accoglierà me".
Per tradurre in pratica queste promesse, il Metropolita si fece iniziatore del centro della «protezione della madre».
Così occupandosi dei problemi della famiglia, si proponeva di presentare tutte le esperienze di Cracovia in questo campo in un volume sulla teologia della famiglia; ma non ne ebbe il tempo prima del Conclave di ottobre...

LE VISITE PASTORALI

Si recava spesso in visita pastorale alle parrocchie. Alcune volte prolungava la visita anche per qualche settimana, altre volte invece, arrivava all'improvviso e solo per poco tempo.
Durante le visite, nelle quali era accompagnato, specie in questi ultimi anni, da Mons. Francesco Walancik, riusciva a pronunciare l'omelia in quasi tutte le celebrazioni domenicali; ed ancora aveva la forza di far visita ai malati.
Interessato com'era alla problematica familiare, introdusse un rito divenuto ormai consuetudine: dopo ogni S. Messa con una catechesi, rivolta specialmente agli sposi, benediceva a parte ogni coppia.
Nei contatti con i sacerdoti evitava il tono di un superiore, o di chi volesse impartire una lezione; anzi, per il suo tono affabile, era da molti esortato ad essere più duro; a questa osservazione una volta così rispose:
«Più tempo passa da quando sono Vescovo, più mi convinco che sono piuttosto 'sotto' che 'sopra'».
La gente lo invitava in ogni parte della Diocesi; una volta davanti al Palazzo Arcivescovi le si presentò una delegazione di seicento persone, provenienti dalla regione dei Carpazi inferiori; recavano l'invito, per il Metropolita, di visitare le loro parti.
Si sentiva, ed era, uno di loro.
Il prelato a contatto con il mondo intero, l'erudito ammirato durante i congressi, l'uomo che parlava con scioltezza molte lingue, si trasformava facilmente in una persona semplice, in un parroco che sapeva conquistare il cuore dei suoi parrocchiani: riconoscevano il timbro baritonale della sua voce vibrante, ne conoscevano anche il sorriso gioviale, il senso spiccato dell'umorismo, l'indole bonaria.
Arrivava con una grossa Opel nera (sebbene spesso preferisse una Volga, in quanto meno vistosa); era ricevuto sotto archi trionfali dalle bande folcloristiche a cavallo, ma già dopo qualche minuto riusciva a creare un'atmosfera familiare, sapendo scegliere il linguaggio adatto per le persone che gli stavano davanti, appartenenti al colorito mosaico di provincia, solo apparentemente così semplice.
Ovviamente questi rapporti non avvenivano a scapito della sua amata città di Cracovia; era spesso ospite nelle sue parrocchie, nei vari conventi e nelle congregazioni.
Gli rincresceva che la Cattedrale di Wawel contenesse poche persone; lo spazio ristretto si può spiegare ricordando la consuetudine, risalente a qualche secolo fa, che voleva una Cattedrale come posto riservato al re e alla corte; la chiesa di Santa Maria, invece, collocata al centro della città, era riservata alla borghesia cittadina.
Cercò, per ovviare l'inconveniente di Wawel, di mutare almeno il concetto di privilegio, ed evitare così alla Cattedrale l'aspetto di un museo, per quanto anche questo potesse essere segno di privilegio.
Prese la consuetudine di invitarvi, in occasione del Natale, della Pasqua, della Pentecoste, della festa di Cristo Re, i fedeli dalle diverse parrocchie, rivolgendo a tutti, per l'Epifania, gli auguri di buon Anno nuovo. Infine dovette preoccuparsi di come risolvere il problema dell'«invasione» dei fedeli e dei turisti, oltre che per la già citata esiguità di spazio, anche per la dignitosa atmosfera che la Cattedrale doveva sempre mantenere.
Per sua iniziativa si creò allora un gruppo di chierici che facevano da guide, insegnando, da una parte, il comportamento sincero e religioso, ed imparando, essi stessi, dall'altra, come instaurare contatti con le persone che giungevano lì da ogni parte del mondo.

UNA GIORNATA DEL METROPOLITA

Amava intrattenersi personalmente con ognuno e su ogni tema. È noto che, quando stava in Cracovia, era solito alzarsi alle sei, e lavorare fino alle undici nel suo studio; dopo tale orario, il portone del palazzo arcivescovile veniva sempre aperto per ogni persona che volesse da lui udienza.
Accadeva spesso che la gente, davanti a lui si sentisse intimidita; questo non a causa di una ostentata superiorità o freddezza, che non si confacevano alla sua natura vivace e franca, ma per il modo con cui era solito ascoltare; sfogliava carte sparse sulla scrivania, dando l'impressione di non afferrare quello che gli veniva detto.
Al contrario!
Seguiva tutto scrupolosamente, anche se in apparenza sembrava distratto. La sua memoria annotava i minimi particolari, cosa che sorprendeva piacevolmente l'interlocutore, allorché in occasione di un successivo incontro, anche lontano nel tempo, questi particolari erano minuziosamente citati dal Metropolita.
In lui suscitavano interesse cose spesso giudicate futili, o che sembravano non appartenere al suo mondo.
Distribuiva il proprio tempo con economia, sfruttando ogni minuto. Spesso sbrigava faccende d'ufficio durante un viaggio in macchina; a questo scopo, fu installato sulle sue due macchine uno scrittoio munito di lampadina, così poteva lavorare, scrivere o leggere anche nelle ore serali.
Vogliamo riportare qui un ricordo di Mons. Casimiro Majdanski, quando era ancora rettore dell'Ateneo Sacerdotale e si intratteneva con i collaboratori in riunioni di carattere teologico, pastorale e redazionale nell'abbazia di Tyniec (vicino a Cracovia):
«Si sapeva bene che l'Arcivescovo di Cracovia superava facilmente distanze anche lunghe e che sempre lavorava durante il viaggio. Era questo un modus vivendi che in quei giorni lontani aveva proporzioni modeste, ma già annunciava il futuro sviluppo. Una volta, ad esempio, giunse a Tyniec quando ormai doveva ripartire alla volta di Varsavia: la decisione fu fulminea, tutto il corpo di redazione si trasferì dall'ufficio sulla sua grande auto, che divenne così una sala di discussione. Arrivati però vicino a Radom, cittadina posta a metà del percorso per Varsavia, essendoci accorti che si procedeva troppo lentamente e che avremmo perduto il treno per il ritorno (da Varsavia a Cracovia), ecco un'altra decisione improvvisa: dividerci lì a Radom per avere la possibilità di ritornare.
Ogni minuto era sfruttato e, per di più, nella massima libertà possibile».
Il Metropolita voleva molto bene ai giovani.
Per praticare lo sci o il canottaggio partiva regolarmente con gruppi di giovani, in inverno cercava di trascorrere due settimane sui campi da sci, durante le vacanze dedicava altro tempo alle passeggiate in montagna e lungo i laghi, conducendo vita «poco cardinalizia». (L'ultima discesa sciistica da Kasprowy l'ha compiuta nel marzo 1978; la notizia della morte di Paolo VI lo raggiunse mentre era sotto una tenda...).
Ma questo non era l'unico modo per avvicinare i giovani; durante gli incontri pregava insieme con gli altri e prendeva ardentemente parte alle conversazioni. Ogni anno dedicava ai giovani opuscoli o manuali che venivano distribuiti nel giorno di S. Stanislao Kostka, loro patrono. Era solito dire: «Bisogna santificare il luogo del lavoro, per santificare l'uomo»; ed ancora: «Che il libro benedetto vi ricordi la necessità di unire il lavoro alla preghiera, di iniziare il lavoro dalla preghiera per trasfigurarlo in essa». Molte volte si intratteneva con i giovani fino a notte fonda, quando ormai «il luogo del lavoro» era stato santificato.
Spesso i discorsi erano allietati da canti, in specie quelli di montagna accompagnati con la chitarra.
Il 4 novembre, giorno di S. Carlo Borromeo, i giovani cantavano al loro Metropolita canzoni composte per l'occasione.
Il giorno del suo onomastico cominciava con la santa Messa, celebrata nella chiesa a Niepolomice, che porta il nome del Santo. Poi c'era l'incontro con i chierici, specie da quando i seminaristi preparavano ogni anno, a partire dal 1968, delle recite, sotto la guida del maestro Kotlarczyk, volendo testimoniare, in questo modo singolare, la loro riconoscenza e stima al festeggiato. Queste rappresentazioni non erano costituite da semplici saggi letterari; un ingegnoso disegno di composizione univa in esse testi del Vangelo con le più belle pagine della letteratura polacca, poeti romantici e, fra altri famosi autori, sempre in rilievo erano Wyspianski e Kasprowicz. «Gobelin biblijny - L'arazzo biblico -», la rappresentazione del 1976, ricordava le storie della Genesi e di Giacobbe, alternate a frammenti dell'«Acropolis», una strana opera di Wyspiánski, la cui azione si svolge a Wawel e narra la definitiva riconciliazione tra Giacobbe e suo fratello Esaù. Tra le mura del seminario si udiva spesso la canzone preferita del Metropolita: «La barca».
La giornata del 4 novembre il più delle volte finiva con uno incontro con gli studenti. Nel palazzo di via Franciszkanska arrivavano fiori, congratulazioni, piccoli scherzosi regali: una volta ricevette un aereo-giocattolo per facilitare i viaggi a Roma... Cose queste che lo riempivano di gioia. Disse un giorno: «Questa grande gioia nasce dalla convinzione che, in un'epoca nella quale non manca la menzogna, i giovani vogliono vivere la verità, si muovono sull'onda della verità incontro ai tempi, non temendo i pericoli che questo incontro può celare; non temendo di sbagliare, sostenendo che la cosa più importante è rimanere se stessi, fedeli a se stessi e, nella loro anima, fedeli a Cristo. In tal modo tutti i nostri incontri diventano eloquenti e significativi. Di questo vi sono grato, devo dire che serate come queste mi danno molta gioia, per cui vi invito a venire qui il più spesso possibile, e prendete questo invito con assoluta serietà».

IL SEGNO DEL NUOVO MILLENNIO

La chiesa di Nowa Huta è forse la più bella chiesa della regione di Cracovia, sicuramente è la più moderna. Emerge, quasi come una nave alla fonda, dal grande quartiere metallurgico, a 14 chilometri da Cracovia, e la sua croce, proprio come l'albero di una nave, sembra salutare da lontano coloro che arrivano. Grazie al modo in cui essa è costruita, si va infatti direttamente dal marciapiedi all'interno, sembra voler invitare ogni passante; una volta all'interno, colpisce la monumentale semplicità della sua navata in cemento armato, appare quasi più rifugio che tempio, privo com'è di ornamenti; ma che fascino e che atmosfera indicibile! Ai lati del corridoio d'accesso vi sono immagini di Madonne: la Madonna di Auschwitz, di Majdanek, di altri lager, tutte scolpite nel legno dallo scultore Antonio Rzasa. Questo insieme sovrasta dall'altare un prigioniero vestito con la tuta rigata dei campi di concentramento: il beato Massimiliano Kolbe.
La chiesa di Nowa Huta rappresentò sempre, per il Metropolita, motivo d'orgoglio e di speranza. Nella sua mente rimase impressa una Messa notturna di Natale, quando a Nowa Huta non vi era ancora il tempio, ma una piccola cappella ed i fedeli, raccolti all'aperto in quella gelida notte, cantavano le «Koledy» i canti popolari natalizi, rischiarati dal bagliore delle fonderie. Questo fu lo scenario consueto per molto tempo, spesso accanto ad una Croce tenuta alta dai parrocchiani. Quando tornò, ormai Pastore Universale, a Nowa Huta, poté, a ragione, affermare che quella Croce tanto contesa, era un segno del nuovo millennio, punto d'incontro del Vangelo con i tempi nuovi e le nuove condizioni. La costruzione della chiesa ebbe inizio nel 1967. Il Metropolita scavò per primo, simbolicamente, nel terreno. Prima pietra delle fondamenta fu, dono di Paolo VI, un frammento della tomba di San Pietro. Altro dono del Santo Padre fu la somma di diecimila dollari, come contributo per la costruzione.
Dieci anni dopo, il 15 maggio 1977, la chiesa venne consacrata, sotto una pioggia torrenziale, che tuttavia non impedì a migliaia di fedeli di accorrere per la celebrazione. Una foto ricordo dell'occasione mostra il Metropolita di Cracovia a capo scoperto sotto la pioggia e con il volto raggiante di gioia.
La costruzione di questa chiesa ha richiesto molti sforzi; spesso il Metropolita trascorreva del tempo in conversazione con gli operai, fra i quali numerosi erano i giovani volontari venuti dall'estero, per rendere omaggio, con la loro opera, alla memoria del grande francescano.

QUELLI CHE SONO PASSATI

Il Metropolita si preoccupava molto della costruzione di nuove chiese ed una volta ultimate, le consacrava con grande gioia. Battezzava i bambini, amministrava le cresime, celebrava matrimoni, svolgeva catechesi. Si faceva particolare carico di incontrare, ogni anno, i malati. Alla vigilia di Natale quando, secondo un'antica tradizione polacca, si spezza l'ostia (in polacco si chiama «oplatek»), e la si divide con gli ospiti, il Metropolita invitava persone di ogni ceto. Una cerimonia simile a questa la si ha durante il periodo pasquale, quando tutti i cibi che saranno consumati vengono prima benedetti (tale cerimonia si chiama «swiecone»). Memore di tutte le figure che con la santità delle loro opere avevano rafforzato la chiesa polacca, ne promosse i processi di canonizzazione; ecco i nomi dei beatificati: Vincenzo Kadlubek, Bronislawa e Salomea, la regina Jadwiga, Simone di Lipnica, padre Massimiliano Kolbe, Teresa Ledòchowska d'Africa. Quelli in odore di santità sono: padre Pietro Semenenko, Frate Alberto, padre Raffaele Kalinowski, suor Faustina Kowalska, Aniela Salawa, frate Aloisio Kosiba...
Si recava personalmente alle esequie degli amici, di confratelli vescovi, di un sacerdote di campagna morto centenario, di un giovane parroco morto in un incidente stradale, dell'amico Kotlarczyk, del ministro Eugenio Kwiatkowski, della samaritana Anna Chrzanowska, del prof. Stanislao Pigon, della moglie di un amico di Wadowice, di alcuni attori tragicamente morti in un incidente e di tanti altri.
Lo si vedeva spesso, nelle ore mattutine, immerso nella preghiera, all'interno della chiesa dei francescani, in cui la luce filtra attraverso le vetrate gotiche, espressioni del genio di Wyspianski, il quale oltre che poeta fu un grande pittore. Le vetrate che sono fra le opere d'arte più preziose della Polonia, raffigurano il Creatore, San Francesco, la priora Salomea, e colpiscono per la policromia dei colori. Il Metropolita amava andare spesso, sempre nelle ore mattutine, alla chiesa delle Bernardine, in via Poselska, piccolo tempio seminascosto dal portone del convento. Nel suo interno, caratteristico per il color verde-oro, si conserva un quadro raffigurante San Giuseppe, ritenuto miracoloso e per questo molto venerato. Altra particolare meta della devozione del Metropolita era la Skalka - Piccola Roccia - una chiesa non lontana da Wawel, dedicata a San Stanislao vescovo. Una leggenda che mai potrà trovare conferma dice che il Santo subì qui il martirio. La Skalka rimane, tuttavia, la testimonianza della mistica presenza del Santo Martire; in essa i Padri Paolini custodiscono le sue reliquie ed una scheggia dell'altare presso cui il Vescovo fu ucciso. Sul Presbiterio è appeso un quadro raffigurante il Santo con una spada sospesa sul capo. Anche all'esterno vi sono testimonianze che richiamano ancora alla mente di ogni generazione il dramma lontano: una statua, delle aquile in pietra e una vasca; la leggenda narra infatti che, essendo il Vescovo di Szczepanów, Stanislao, entrato in conflitto con il re, Boleslao Smialay - il coraggioso l'11 aprile 1079, colpito a morte da sicari del re, mentre celebrava la Messa, cadde presso l'altare. Ma forse il carnefice fu lo stesso Boleslao, sovrano valoroso, ma ambizioso, vendicativo, intemperante e forse psicopatico. I colpi furono inferti alle spalle. Dopo un attento esame del cranio moderni periti hanno stabilito che il Santo fu pugnalato da destra verso sinistra. Il Vescovo divenne patrono della Polonia secondo il decreto di Giovanni XXIII. Ma che cosa rappresentò quest'uomo per il suo Paese? E ancora, perché subì un tale martirio?
Erano questi interrogativi motivo costante della meditazione del Metropolita, che lo ebbe sempre particolarmente caro, nella stessa misura in cui ebbe cari i suoi due patroni: Carlo e Giuseppe, e San Giovanni della Croce, che lo guidò sulla via della contemplazione dell'anima, attraverso l'immersione nella preghiera e la meditazione; la beata regina Jadwiga, il beato Massimiliano Kolbe, il servita frate Alberto. Il Cardinale vedeva nel suo Santo protettore un difensore dell'ordine morale e per questo motivo decise di rendergli omaggio nel nono centenario della morte che sarebbe caduto nell'anno . Le prime celebrazioni ebbero luogo nel 1972, anno del nono centenario dell'assunzione del governo dell'arcidiocesi da parte del Vescovo Stanislao; una importante decisione venne presa per la circostanza: «Durante le celebrazioni del nono centenario di San Stanislao - scrisse il Metropolita in una lettera pastorale - abbiamo l'intenzione di organizzare e svolgere, nell'Arcidiocesi di Cracovia, un Sinodo che, se sarà onorato dall'adesione dei Vescovi delle altre Diocesi, diventerà il Sinodo della Provincia Ecclesiale Cracoviense. Si sarebbe dovuto convocare, oltre che per ragioni canoniche, e per le istruzioni della legge ecclesiale, per il bisogno di una più profonda comprensione, da parte della nostra Chiesa della ricchezza immensa dell'insegnamento del Concilio Vaticano secondo».

IL SINODO DI CRACOVIA

Il Sinodo, capeggiato dal Metropolita, ebbe inizio l'8 maggio del 1972 e risultò essere un'impresa, a dir poco, monumentale.
Presidente della Commissione Generale fu Sua Ecc. Mons. Stanislao Smolenski; presidente per la commissione degli Esperti per le Questioni Pastorali e Sociologiche, il Rettore del seminario don Francesco Macharski.
Lo statuto del Sinodo stabiliva l'ammissione di ogni cristiano alle adunanze e definiva lo scopo del Sinodo stesso: Arricchimento della fede e piena formazione della figura del cristiano, grazie alla testimonianza cristiana. Quali mezzi, per raggiungere tali scopi, si indicava lo studio del Concilio Vaticano II, una migliore conoscenza della situazione religioso-morale, una riflessione sulla più completa realizzazione delle indicazioni del Sinodo e la definizione delle norme legali e pastorali che avrebbero fornito aiuto in ciò (art. II). Durante i sei anni che seguirono, le Commissioni sinodali si dedicarono ai problemi più importanti della pastorale nell'arcidiocesi, cercando per essa i metodi più adatti ed adeguati; formularono e definirono, inoltre, i documenti sinodali. La ricchezza degli argomenti trattati si rivela al solo scorrere i titoli dei documenti: «Proclamazione della parola di Dio. - Trasmissione e sviluppo della fede nella famiglia. - Catechesi ed Eucaristia, fonti della vita cristiana. - Partecipazione del cristiano alla vittoria di Cristo sul peccato. - Pentimento e sacramento della penitenza. - Il Sacramento dell'ordine. - Il Matrimonio cristiano. - La santificazione del tempo. - Il bambino nella comunità cristiana». E molti altri.
Bisogna inoltre aggiungere che prima di arrivare alla formulazione definitiva, ogni documento veniva ridiscusso e spesso trascritto, non intorno alla scrivania di qualche specialista, ma grazie all'apporto di una grande comunità di fedeli.
Molte riunioni plenarie si svolsero tra le mura della Cattedrale di Wawel e nell'aula dell'ospitale abbazia di Mogila. In tutta l'arcidiocesi lavorarono circa cinquecento gruppi di studio, composti da sacerdoti, religiosi, suore, studenti e, più numerosi di tutti, padri e madri. Si univano per celebrare l'Eucaristia, per i ritiri spirituali, per giornate di raccoglimento e dibattiti. Il Metropolita ripeteva spesso che gli sarebbe piaciuto avere «una Chiesa in educazione permanente». Ed aggiungeva ammonendo: «Ma questo deve essere un apprendimento attivo - questo lo diceva nel 1972 - perciò nel lavoro dei gruppi di studio dobbiamo escludere il puro intellettualismo, il conoscere per conoscere, questo lavoro deve entrare profondamente nella vita, nel cristianesimo, nella vita interiore, nel governo spirituale di ciascuno in particolare».
Il Sinodo cercava gradualmente di realizzare l'opera del Concilio Vaticano II. Introduceva i laici nello svolgimento della vita dell'arcidiocesi, indicava loro il ruolo nella missione della Chiesa, preparava il modello dei consigli parrocchiali. Il Metropolita si interessava di tutti i lavori ed aspettava di chiudere solennemente il Sinodo, nella sua veste di Pastore di Cracovia, nell'anno 1979, in coincidenza con le celebrazioni per il 900° anniversario della morte di San Stanislao. Tutto però si sarebbe svolto in modo più solenne.
Il 28 settembre ricorrevano i venti anni della consacrazione episcopale, conferita dall'Arcivescovo Baziak al sacerdote Wojtyla. Il Metropolita decideva di celebrare tale giorno nella maniera più raccolta possibile, senza troppi festeggiamenti esteriori; così come in altre circostanze, trovò, per un momento di riflessione, rifugio nel Santuario della Madonna a Kalwaria. Alla vigilia del Giubileo passò dunque lunghe ore in preghiera, meditando tra le stazioni della Via Crucis, cappelle silenziose che si trovano lungo la collina del Santuario. In serata era già di ritorno a Cracovia. Il giorno del Giubileo, che coincideva con la festa del Patrono della Cattedrale di Wawel San Venceslao, fu inaugurato il Museo dell'Arcidiocesi, sorto per iniziativa del Metropolita. La serata, tipicamente autunnale, era piovosa, ma l'acqua non scoraggiava le centinaia di persone convenute. Il Metropolita si intrattenne con molti ospiti, ammirò la raccolta del Museo, alla quale aveva aggiunto anche un proprio dono: un reliquiario. Nessuno poteva prevedere che cosa sarebbe accaduto di lì à qualche ora a Roma.
Proprio quella sera di giovedì, infatti, il «Papa del sorriso», Giovanni Paolo I, non sarebbe riuscito a riporre il libro che stava leggendo prima di addormentarsi e a spegnere la luce. Morì, colpito da un attacco cardiaco verso le ore 23. La notizia si sarebbe sparsa all'alba, allorché Padre Magee sarebbe andato a svegliarlo come ogni giorno. Dalle pagine del libro rimasto aperto - L'Imitazione di Cristo - di Tommaso da Kempis, riportiamo le seguenti espressioni:
«Cum mane fuerit: puta te ad vesperum non perventurum. Vespere autem facto; mane non audeas tibi polliceri. Semper ergo paratus esto: et taliter vive, ut numquam te imparatum mors inveniat. Multi subito et improvise moriuntur: nam hora qua non putatur, Filius hominis venturus est». - Quando è mattino, pensa che non arriverai alla sera. Quando giunge la sera, non osare sperare nel mattino. Infatti devi essere sempre pronto e vivere in tal modo, che mai la morte ti colga impreparato. Molti muoiono all'improvviso: infatti nessuno sa quando verrà il Figlio dell'Uomo.

Ed infatti la morte entrò di colpo in quella stanza del Vaticano, come presagivano le parole di quest'opera intrisa di misticismo ed umiltà escatologica medioevale, lasciando solo un sorriso sereno sul volto di Giovanni Paolo I. Si concluse così quel pontificato durato appena trentatrè giorni.
A Cracovia nessuno voleva dar credito alla notizia, tanto sembrava incredibile; fu Giuseppe Mucha, autista del Cardinale, il primo che, avendola ascoltata alla Radio, la diffuse in Curia. Chi vide la reazione del Metropolita a tale nuova, ricorda che rimase profondamente colpito, e seppe esclamare solo: «Quanto incomprensibili sono le tue vie, o Signore, pieghiamo davanti ad esse il capo».
Tuttavia il programma di quel giorno non venne cambiato; nel pomeriggio il Cardinale, assistito da Mons. Walancik, partì per una visita canonica a Zlote Lany, una parrocchia nuova vicino a Bielsko. La visita si protrasse fino alla domenica, non tralasciando gli ammalati. Sulla via del ritorno, vicino al Santuario di Kalwaria, il Metropolita volle fermarsi, amava farlo così improvvisamente durante i viaggi, per una breve passeggiata, ammirare il paesaggio, e meditare tra sé i discorsi interrotti in macchina. Quella volta, chino sullo scrittoio, sbrigò la corrispondenza. Tornato in Curia, la consegnò perché fosse battuta a macchina; non voleva lasciare nulla in sospeso prima di partire, l'indomani, 1° ottobre 1978, alla volta di Roma, per partecipare ai funerali di Giovanni Paolo I ed al Conclave che sarebbe seguito.
Karol Wojtyla al Sinodo di Cracovia

Wojtyla a colloquio con Giovanni Paolo I

IL CONCLAVE

Il 16 ottobre 1978, il terzo giorno del Conclave, i Cardinali si riunirono nella Cappella Sistina. In seguito il Cardinale Jean Guyot avrebbe scritto: «Ore 16,30, pieni di speranza riprendiamo i lavori.
Senza alcuna pressione ci apparve chiara la scelta impostasi da sola, in un modo che nessuno avrebbe potuto prevedere. Bisognerebbe vivere personalmente questa esperienza, per scorgere come nell'Assemblea apostolica, lo Spirito Santo influisce misteriosamente nel profondo dell'animo. Guardavo il Cardinale Wojtyla seduto di fronte a me. Sembrava schiacciato da un peso enorme, che lo aveva appena colpito. La testa china ancor più stretta fra le spalle, non riusciva a nascondere la commozione. Come era colmo di tensione, allorché, in profondo silenzio, si aspettava la risposta dell'eletto alla domanda rituale rivoltagli solennemente, in nome del Sacro collegio, dal Cardinale Villot: «Accetti?»
L'Arcivescovo di Cracovia espose le ragioni che stavano alla base della sua accettazione; parlò lentamente, con voce interrotta da un respiro profondo, nonostante il timore da cui era preso e con cui di lì a poco si confiderà alla folla. Queste ragioni sono, per loro essenza soprannaturali:
L'Amore a Cristo, la fiducia della SS.ma Vergine, che è Sua Madre, infine il legame alla Chiesa ed il desiderio di dimostrarLe obbedienza, in quanto esige dall'Eletto di sottomettersi alla volontà di Dio. Per questo e solo per questo risponde con la parola che lo legherà per sempre: «Accepto - Accetto».
Di lì a poco suonavano le campane di tutte le Chiese di Roma e con esse quelle di Cracovia e del mondo intero. Ormai Giovanni Paolo II si affaccia dal balcone della Basilica...
Qualche tempo dopo scriverà ai connazionali: «Cari compatrioti! Non è facile rinunciare al ritorno in Patria, a 'quei campi rivestiti di mille colori, dorati di frumento, argentati d'orzo!' come scrisse un grande poeta polacco, Mickiewicz: 'A queste montagne e vallate, ai laghi e fiumi, a questa gente amata, a questa Città Regale'. Ma se questa è la volontà di Cristo, bisogna accettarla. L'accetto allora. Vi prego solamente che questo distacco ci leghi ancora di più e ci unisca a ciò che forma il contenuto del nostro comune amore. Non dimenticatevi di me nelle vostre preghiere a Jasna Góra e in tutta la nostra Patria. Che questo Papa, che è sangue del vostro sangue e cuore del vostro cuore, serva alla Chiesa e al mondo nei tempi difficili della fine del secondo millennio. Vi prego di conservare la fedeltà al Cristo, alla sua Croce, alla Chiesa e ai suoi Pastori. Vi prego di opporvi a tutto ciò che deturpa la dignità umana e degrada le tradizioni di una sana società, a tutto ciò che può minacciarne l'esistenza e il bene comune, a tutto ciò che può diminuirne il contributo al comune tesoro dell'umanità, dei popoli cristiani e della Chiesa di Cristo. Permettete che vi citi le parole di San Paolo: 'Soltanto però comportatevi da cittadini degni del Vangelo, perché nel caso che io venga e vi veda o che di lontano senta parlare di voi, sappia che state saldi in un solo spirito e che combattete per la fede del Vangelo'.
Desidero ardentemente venire a voi per il nono centenario di San Stanislao, al quale ci siamo preparati con tanto ardore in tutta la Polonia, ma specialmente nell'Arcidiocesi e nella Metropoli di Cracovia. Ho fiducia che questo Giubileo porterà un rinnovamento nella nostra fede e nei costumi cristiani, giacché vediamo, da quasi ormai mille anni, in San Stanislao il Patrono dell'ordine morale, così come in Sant'Adalberto il Patrono dell'ordine gerarchico».
Aveva scritto: «Desidero ardentemente venire a voi».
Sarebbe ritornato?
Ormai lo sappiamo: è ritornato.
Indimenticabili giorni dal 2 al 10 giugno 1979: Varsavia, Gniezno, Csestochowa, Cracovia, Kalwaria Zebrzydowska, Wadowice, Ogwiecim, Nowy Targ, e ancora Cracovia. Fu dappertutto il Pellegrino nella bianca veste papale. Il Pellegrino salutato con venerazione, con onori, con entusiasmo.
Pregava con noi e ci parlava. Ancora una volta s'incontrava con l'Arcidiocesi cracoviense, concludendo i lavori del Sinodo.
Ancora una volta, con umile sottomissione, si presentò dinnanzi alla Signora di Jasna Góra. Ancora una volta si fermò sul Santo colle di Kalwaria e, con una stretta al cuore, nelle vie della città natale. Ancora una volta si genuflesse, rendendo omaggio alle ceneri del Gólgotz dei nostri tempi e alla tomba gigantesca del Soldato Ignoto: Auschwitz.
E dopo, non potendo nascondere la commozione, baciò la terra degli avi in filiale saluto.
«Né occhio vide mai, né orecchio udì, né immaginò cuore umano che grandi cose ha Dio preparate per coloro che lo amano» (I Cor., 2,9).
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